In attesa che i vari partiti dell'Unione si mettano d'accordo,
par di capire che le leggi vergogna resteranno in vigore anche
con il centra-sinistra al governo. E a un convegno di Italianieuropei
viene invitato a parlare del programma sulla giustizia l'ex
piduista Valori, dalla istruttiva storia personale. Non abbiamo
ancora cominciato che gia cominciamo bene...
« Back | manda a un amico |
versione stampabile 03/12/2005 21:42 ITALIANIEUROPEI (E PIDUISTI),
UNITEVI ITALIANIEUROPEI (E PIDUISTI), UNITEVI Marco Travaglio
(MicroMega 7/2005, pag. 85-96) In attesa che i vari partiti
dell'Unione si mettano d'accordo, par di capire che le leggi
vergogna resteranno in vigore anche con il centra-sinistra al
governo. E a un convegno di Italianieuropei viene invitato a
parlare del programma sulla giustizia l'ex piduista Valori,
dalla istruttiva storia personale. Non abbiamo ancora cominciato
che gia cominciamo bene... Siamo sicuri che l'eventuale governo
dell'Unione abrogherà le leggi-vergogna? L'unico leader ad averlo
promesso a chiare lettere è Romano Prodi, cosi come il nuovo
responsabile giustizia Massimo Brutti. Gli altri invece, da
Francesco Rutelli a Massimo D'Alema, da Luciano Violante a Giuliano
Pisapia, si producono in distinguo sempre piu sottili, soprattutto
a proposito della giustizia. E i segnali che giungono da ogni
parte d'Italia sembrano inequivocabili: non è solo questione
di leggi, ma di sostanza. Anche perchè l'inarrestabile transumanza
di ex polisti sta portando nelle file del centro-sinistra una
gran quantità di personaggi che quelle leggi vergogna hanno
votato, condiviso e difeso per quasi tutta la legislatura. A
Milano i Ds criticano la decisione del consiglio comunale di
dedicare una targa votiva a Bettino Craxi nel palazzo di piazza
Duomo che ospitava i vecchi uffici del Garofano. dove lo «statista»
riceveva le mazzette, ma propongono di spostarla in via Foppa,
dove il leader abitava. L'idea che a un pregiudicato latitante
non si dedicano targhe da nessuna parte non li sfiora neppure.
Tant'è che prosegue indefesso il corteggiamento a Bobo Craxi
e a Gianni De Michelis per assicurare agli elettori del centro-sinistra
la succulenta prospettiva di poter votare almeno per un membro
della famiglia Craxi. Lo dice papale papale Vannino Chiti, coordinatore
della segreteria Ds: «Avere avuto un atteggiamento antisocialista
durante Mani Pulite è stato del tutto sbagliato, non solo perchè
le questioni penali sono individuali (già, peccato che riguardassero
tutto lo Stato maggiore del Garofano), sia anche perchè «non
credo che Craxi possa essere inchiodato a una vicenda giudiziaria
(infatti ne aveva una dozzina, fra cui due approdate a condanna
definitiva per un totale di 10 anni di carcere)».
A Salerno il segretario nazionale
Piero Fassino è sceso per ben tre volte in pochi mesi per suggellare
l'ingresso nei Ds di Carmelo Conte, già ministro socialista,
salvato dalla prescrizione nei processi della Tangentopoli campana
ma ancora imputato davanti al tribunale per concorso in associazione
camorristica: operazione pilotata dal deputato querciaiolo Vincenzo
De Luca, nemico giurato di Bassolino, al punto di sbandierare
contro il governatore la «questione morale» per le spese eccessive
delle commissioni regionali. La questione morale in mano a chi
ha fatto entrare nel partito un imputato per camorra.
In Sicilia metà dei Ds osteggia
la candidatura di Rita Borsellino proposta dalla società civile,
dopo aver impallinato quella di Claudio Fava, che pure alle
ultime europee ha fatto il pieno di voti. E si da ormai per
certo un posto d'onore nelle liste elettorali per il ras della
Quercia a Enna, Vladimiro Crisafulli, vicepresidente dell'assemblea
regionale e dalemiano di ferro, sorpreso tre anni fa da una
telecamera a baciare e incontrare il locale boss mafioso Bevilacqua
nella saletta di un albergo per parlare di assunzioni, finanziamenti
e appalti pubblici. Molto meglio, per questa parte della Quercia,
la candidatura di Fernando Latteri, l'ex forzista catanese trasmigrato
due anni fa nella Margherita e sonoramente trombato alle europee,
ma molto amato da Anna Finocchiaro ed Enzo Bianco, luogotenenti
etnei rispettivamente di D'Alema e Rutelli, gia protagonisti
della ignominiosa debacle dell'unione alle ultime comunali (che
hanno visto la rielezione del sindaco forzista Umberto Scapagnini).
La Finocchiaro, come del resto Fassino, s'è pure segnalata per
una dichiarazione in favore del ponte sullo stretto di Messina.
Così, se alle primarie Latteri prevalesse sulla Borsellino,
i siciliani potrebbero scegliere fra un ex del centro-sinistra
passato al centro-destra (Totò Cuffaro) e un ex del centro-destra
passato al centro-sinistra (Latteri). Sono soddisfazioni.
Poi c'e l'atteggiamento quantomeno
ambiguo dimostrato dal centro-sinistra in occasione delle due
leggi «contra personam» varate dalla maggioranza per eliminare
Gian Carlo Caselli dalla corsa alla procura nazionale antimafia
e far vincere il concorso all'unico candidato rimasto: Piero
Grasso. L'8 febbraio 2005 la legge che proroga il superprocuratore
Piero Luigi Vigna (per dar tempo a Caselli di compiere i 66
anni, dopodichè in base al nuovo ordinamento giudiziario sarà
tagliato fuori dalla gara) passa alla Camera con i voti determinanti
di Rifondazione comunista, che si astiene rimpiazzando cosi
le larghe assenze tra le file della Cdl. II capo-gruppo Pisapia
spiega che non s'è trattato di un errore, ma di una precisa
scelta. E al Csm, quando si tratterebbe di contestare quel concorso
ormai truccato come fanno i membri togati di Magistratura democratica
e del Movimento per la giustizia, i laici del centro-sinistra
votano per Grasso, candidato del governo, insieme a quelli della
Cdl.
II 5 luglio il gip milanese
Fabio Paparella acquista quattro pagine del Corriere della Sera
per annunciare alle migliaia di azionisti Mediaset (irraggiungibili
per lettera) l'udienza preliminare del megaprocesso sui diritti
televisivi che vede imputato, fra gli altri, Silvio Berlusconi.
"L'avviso pubblico" è espressamente previsto dal codice quando
le parti attese siano molte e non raggiungibili altrimenti,
ma essendoci il premier di mezzo la maggioranza scatena la solita
canea. Prontamente Massimo D'Alema si associa, definendo l'iniziativa
del giudice «discutibile» e intonando la solita litania: «Berlusconi
va affrontato e battuto sul piano politico, e non inseguendo
inchieste giudiziarie o rinvii a giudizio a mezzo stampa. Che
oltretutto finiscono per essere controproducenti e per innescare
polemiche a tutto vantaggio del premier». II fatto che il premier
del «meno tasse per tutti» sia accusato di aver evaso 120 miliardi
di lire di tasse non lo induce invece ad alcun commento. Del
resto D'Alema è lo stesso che I'll dicembre 2004, quando il
senatore Marcello Dell'Utri e stato condannato a 9 anni per
mafia, se l'e cavata con un furbesco «non commento sentenze»
(Dell'Utri ricambia ripetendo da anni che il suo preferito,
a sinistra, è il leader Massimo). II 21 luglio viene approvata
definitivamente la legge delega sul nuovo ordinamento giudiziario,
cioè la controriforma Castelli.
Mentre una parte dell'opposizione
giura che l'orribile porcheria verrà spazzata via appena l'Unione
sarà al governo, i margheriti Giuseppe Fanfani e Sandro Battisti,
il verde Paolo Cento, il socialista Enrico Buemi, il rifondatore
Pisapia e il diessino Guido Calvi comunicano che almeno in parte
andrà salvata. In particolare, dice Calvi, «questa legge è scritta
da persone culturalmente incapaci, ma ci sono alcuni spunti
positivi come la temporaneità degli incarichi direttivi o la
tipizzazione del procedimento disciplinare, cose gia proposte
da noi». E dunque, una volta al governo, «noi dovremo salvare
quelle parti che sono state e sono patrimonio della nostra riflessione
giuridico-politica». E quando, a un convegno milanese di Libertà
e giustizia, il pm Armando Spataro chiede se l'Unione si impegna
a «radere al suolo» questa e altre leggi vergogna, si becca
una ramanzina da Massimo D'Alema. sinceramente costernato per
quel «linguaggio» poco consono a un magistrato. Per tutta l'estate,
si registrano gli alti lai di politici di sinistra, di centro
e di destra contro i magistrati che indagano sulle scalate trasversali
dei «furbetti del quartierino» alla Rcs, all'Antonveneta e alla
Bnl, con proposte più o meno bipartisan per limitare le intercettazioni
o almeno la loro legittima e doverosa pubblicazione sui giornali
(vedi «I furbetti del Botteghino» nel n. 5/2005 di MicroMega,
p. 172). Luciano Violante - già noto per aver chiesto inopinatamente
la procedura d'urgenza per la riforma del falso in bilancio
nel novembre 2001 - si guadagna la copertina di Panorama rilasciando
al settimanale ultraberlusconiano un'intervista contro Mani
Pulite: «In quella stagione», dice, «ci fu un dato grave, la
caccia al politico, che era in quanto tale considerato un probabile
delinquente. Ci fu un'autentica caccia al politico. Si arriva
al dileggio delle istituzioni. E i protagonisti di quella campagna
furono le forze reazionarie». Quanto ai magistrati, aggiunge
il capogruppo Ds alla Camera, «ci furono intrecci discutibili
tra giustizia e informazione. II rapporto tra giustizia e informazione
è una delle grandi questioni delle democrazie moderne. Certi
magistrati diventano protagonisti attraverso i giornali. E certi
giornali hanno le notizie in anteprima. Tornando a Tangentopoli,
fa impressione la lettura del quotidiani dell'epoca: sembrano
tutti scritti dalla stessa mano». Poi propone addirittura di
espropriare il Csm della funzione disciplinare sui magistrati
(e anche sugli avvocati) «per attribuirla a un organo esterno
di altissima qualità, nominato dal capo dello Stato scegliendo
tra ex giudici costituzionali, ex presidenti di Cassazione,
grandi avvocati e grandi professori universitari» (un organo
che, non conoscendo i problemi concreti dei vari uffici giudiziari,
punirà magari un magistrato oberato di lavoro che ha consegnato
una sentenza con qualche giorno di ritardo e non vedrà invece
il marciume e il dolce far nulla che si annida in certi «uffici
sdraio»); perchè oggi i processi disciplinari affidati al Csm
destano «il sospetto che il giudizio non sia imparziale». Applausi
a scena aperta dalla Casa delle libertà.
Il nuovo programma della giustizia
dell'Unione è affidato all'onorevole avvocato Pisapia, favoritissimo
per la poltrona di ministro della Giustizia. Pisapia è una persona
perbene e un giurista apprezzato. Ma è anche portatore di un
discreto conflitto d'interessi (è contemporaneamente avvocato
e legislatore) e di una cultura ipergarantista che nella scorsa
legislatura condusse al varo di leggi devastanti come la controriforma
dell'abuso d'ufficio, la legge costituzionale sul «giusto processo»
non accompagnata da una modifica del diritto al silenzio dei
testimoni imputati, le nuove norme contro i pentiti di mafia
e cosi via. Ma soprattutto Pisapia è favorevole alla separazione
delle carriere fra giudici e pm; questa'estate ha attaccato
duramente il Csm, insieme al presidente del Senato Marcello
Pera, per aver osato esprimere (come prevede la legge istitutiva
del Consiglio) un parere negativo sulla controriforma dell'ordinamento
giudiziario, accusandolo di «interferenza nei lavori del Parlamento»;
e ha persino contestato, insieme al forzista Gaetano Pecorella,
il mandato di cattura europeo. E' questa anche la linea dominante
del centro-sinistra? Sarebbe interessante saperlo, prima di
dare per scontata la nomina di Pisapia a guardasigilli. Anche
Pisapia, come Calvi, invita a salvare «le parti buone» della
controriforma Castelli (compreso financo l'innesto di rappresentanti
delle regioni, cioe dei partiti, nei consigli giudiziari, cioè
nelle pro-paggini locali del Csm), chiede addirittura «un nuovo
codice penale entro sei mesi» dall'insediamento dell'eventuale
governo Prodi ed è contrario ad azzerare tutte le leggi vergogna
dei berluscones.
Il programma è tutto un programma
Sul futuro programma per la
giustizia del centro-sinistra è ancora buio fitto. Alla «fabbrica»
di Prodi non se n'è minimamente discusso, almeno in pubblico.
Cosi c'è spazio per iniziative estemporanee, come quella della
fondazione Italianieuropei di D'Alema e Amato, che il 28 ottobre
da vita a un convegno sul tema, purtroppo illuminante. Se il
professor Carlo Federico Grosso chiede di «abrogare con forza
tutte le leggi della Cdl» e Fassino propone di «fare subito
un provvedimento che sospenda gli effetti di queste leggi e
dopo riscriverle», 1'ex presidente del Senato Nicola Mancino
(Margherita) impone l'altolà: «L'idea della rimozione totale
è massimalista, dire che abrogheremo tutto quel che ha fatto
la Cdl è eccessivo». E Pisapia va anche oltre: «Dobbiamo dire
la verità: piuttosto che dire che butteremo nel cestino queste
leggi dobbiamo annunciare riforme organiche che di fatto aboliscono
le altre». Viene invitato a parlare persino Ugo Intini, gia
al fianco di Bettino Craxi negli anni bui di Tangentopoli e
della lunga guerra del Garofano alla magistratura: «Se vinciamo
dobbiamo operare in positivo, non in negativo».
D'Alema e d'accordo: «Non andiamo
al governo per cancellare quello che hanno fatto gli altri,
ma per fare le riforme: di conseguenza sarà rimosso tutto quello
che non va». Dunque, par di capire, in attesa che i vari partiti
dell'Unione si mettano d'accordo sulle riforme da fare e trovino
il tempo di approvarle in entrambi i rami del parlamento, le
leggi vergogna sull'ordinamento giudiziario, sul falso in bilancio,
sulle rogatorie, sul Csm, nonchè la Cirami, l'ex Cirielli e
la Boato sull'impunita parlamentare resteranno in vigore. Lo
ribadisce anche Francesco Rutelli qualche giorno dopo in un'intervista
al Corriere della Sera del 2 novembre: «E che facciamo, buttiamo
via tutte le leggi di Berlusconi? Vedo in giro un atteggiamento
un po' troppo agonistico, arriviamo noi e spazziamo via tutto...
Non si può ricominciare da capo ogni volta. A chi dice che bisogna
abolire il 99 per cento delle leggi fatte dalla destra rispondo
di no, è sbagliato».
Lo stesso D'Alema insiste spesso
sul rischio di "apparire conservatori", cioè di voler mantenere
l'esistente: l'indipendenza assoluta della magistratura cosi
come fissata dalla Costituzione non piace nemmeno a sinistra.
Tant'è che Violante, nella sua nuova, ennesima reincarnazione,
arriva a dire: «Abolire non basta: ci vuole un progetto di riforma
della giustizia che non potrà riproporre il sistema precedente».
Più di un passaggio del programma di Italianieuropei sembra
copiato pari pari dalla controriforma Castelli.
1) Allargare i consigli giudiziari
- cioè le propaggini territoriali del Csm, incaricati di dare
valutazioni professionali sui magistrati - con l'inserimento
di «una componente laica eletta con maggioranza qualificata
dai Consigli regionali tra avvocati e professori universitari
di diritto, sulla base di incompatibilità territoriali, espressione
della sovranità popolare e mitigatrice di inevitabili riflessi
corporativi». Cosi l'autogoverno dei giudici sarebbe ancor meno
autogoverno, infarcito di rappresentanti delle regioni, cioè
dei partiti, che moltiplicheranno le interferenze già oggi fortissime
da parte dei membri «laici» del Csm.
2) «I1 cortocircuito mediatico-giudiziario
che a volte - e spesso proprio in coincidenza con l'adozione
di provvedimenti cautelari - si determina tra mass media e uffici
giudiziari (e segnatamente procure della Repubblica) produce
effetti distorsivi sull'intero sistema, e lede non di rado fondamentali
garanzie del cittadino imputato. Nel rispetto della funzione
democratica dell'informazione, un pur parziale rimedio può essere
offerto dall'affidamento al capo dell'Ufficio (presidente di
Tribunale o procuratore della Repubblica) dell'esclusività del
rapporto con i media, costruendo un'autonoma figura di illecito
disciplinare per i magistrati che indicano conferenze stampa,
rilascino interviste o comunque forniscano informazioni ai media
con riferimento a indagini o processi in corso di propria competenza».
Anche la controriforma Castelli silenzia i magistrati affidando
al capo l'esclusivo potere di comunicare con la stampa. L'assurda
pretesa anche degli autori di questa proposta di tener segreti
addirittura gli arresti nasconde, o tenta di nascondere la preoccupazione
che l'opinione pubblica venga a sapere quel che il potere vuole
nascondere: cioè i reati delle classi dirigenti. Fortunatamente
si tratta di un progetto irrealizzabile, anche perchè i provvedimenti
cautelari sono per definizione pubblici e pubblicabili in quanto
comunicati ai destinatari e ai loro avvocati.
In altri punti emerge l'insofferenza
per la discrezionalità del giudice nell'irrogare le pene e per
l'obbligatorietà dell'azione penale, che i cervelloni di Italianieuropei
- come da sempre anche i berluscones - vorrebbero un po' meno
obbligatoria di quel che è previsto nella Costituzione. Alcuni
esempi.
a) Nel progetto si legge che
«l'azione penale deve restare obbligatoria, ma i criteri di
priorità nel suo esercizio non possono continuare a essere meramente
discrezionali. Si potrebbe ipotizzare un sistema "misto" nel
quale i consigli giudiziari riformati, sulla base delle indicazioni
dei capi degli uffici, formulano proposte di priorità valevoli
per ciascuna regione; il Csm rimette dette proposte alle Camere,
le quali rassegnano le proprie osservazioni; infine, il Csm
definisce i criteri territoriali di priorità in sede di approvazione
delle cosiddette "tabelle" degli uffici giudiziari. Nella relazione
annuale al parlamento, poi, il Csm dovrebbe riferire sulle priorità
individuate e sulla concreta applicazione dei criteri dettati
da parte dei singoli uffici giudiziari». E' forse la trovata
più grave e incostituzionale, che introdurrebbe nella giustizia
una sorta di devolution delle priorità sui reati da perseguire
e da tralasciare, variabili da regione a regione. Il tutto con
il contributo di soggetti estranei all'ordine giudiziario e
all'organo di autogoverno, come i nuovi «laici» nominati dalle
regioni nei consigli giudiziari e le Camere. In Lombardia gli
uomini di Formigoni, in Sicilia gli emissari di Cuffaro, e così
via contribuiranno a decidere quali reati privilegiare e quali
tralasciare. Si accettano scommesse.
b) «La separazione delle carriere»,
si legge più avanti, «rappresenta un rimedio peggiore del male,
rischiando di contribuire alla formazione di magistrati dall'ottica
esclusivamente e pregiudizialmente accusatoria. II vero antidoto
contro l'affievolimento nell'azione di molti pm della "cultura
della prova", vice versa, è la circolazione obbligatoria e periodica
dei magistrati nelle diverse funzioni, con l'obbligo di esercizio
di funzioni giudicanti prima dell'accesso a quelle requirenti,
e con un limite di permanenza de-cennale nelle diverse funzioni».
Ecco un'altra tipica manifestazione di sudditanza programmatica
al berlusconismo: si gabellano proposte del genere come geniali
mediazioni «per scongiurare la separazione delle carriere».
Ma per scongiurare la separazione della carriere, se davvero
non la si vuole, basta non proporla. Senza introdurre soluzioni
caotiche come questa. Quando, al convegno, l'avvocato dalemiano
pugliese Gianni Di Cagno spiega che ogni dieci anni i giudici
dovranno diventare pm, e viceversa, con migrazioni di massa
di migliaia di magistrati da un ufficio all'altro, i magistrati
non sanno se ridere o piangere. Il pm milanese Armando Spataro
parla di «una sciocchezza assoluta, demagogica, senza fondamento
razionale: anche se scaglionata nel tempo, sarebbe totalmente
ingestibile, salvo creare dei centri di permanenza temporanea
anche per i magistrati...». Idem il presidente dell'Anm Giro
Riviezzo, che dice «no agli automatismi, si alla rotazione,
no a tourbillon impazziti che disperdono le professionalità».
c) «Limitare il fenomeno dell'esercizio
non sempre sufficientemente meditato da parte del gip e del
pm in tema di sequestro e soprattutto di privazione della libertà
personale. Fermo restando che, in proposito, appare assolutamente
indispensabile un più equilibrato rapporto di organico tra gip
e pm, considerato che la situazione attuale espone inevitabilmente
il giudice ai rischi di un atteggiamento meramente passivo rispetto
alle richieste cautelari provenienti dalle procure». Anche qui,
sudditanza assoluta nei confronti delle campagne politico-mediatiche
di Berlusconi & C. sul presunto «appiattimento» dei gip sui
pm, peraltro mai suffragate da dati statistici. Chi l'ha detto
che i gip accolgono supinamente le richieste di cattura e di
sequestro dei pm? Le cifre dicono, anzi, tutto il contrario:
accade spessissimo che i giudici disattendano le richieste delle
procure, sia in tema di misure cautelari o preventive, sia in
materia di patteggiamenti, riti abbreviati, rinvii a giudizio
e condanne. Basti pensare al rinvio a giudizio dei vertici del
Ros per la mancata perquisizione del covo di Riina a Palermo,
contro il parere della procura che aveva chiesto la prescrizione
per il generale Mori e il capitano Ultimo. E basti pensare all'assoluzione
del marocchino Mohamed Bakri dall'accusa di terrorismo islamico
decretata dal gip Clementina Forleo contro la richiesta di condanna
del pm Armando Spataro. In entrambi i casi, le disparità di
vedute fra i gip e i pm hanno dato origine a polemiche a non
finire: non, stavolta, per l'appiattimento dei giudici sulle
procure, ma al contrario per il non-appiattimento.
La stessa soggezione culturale
alle parole d'ordine dei berluscones emerge dalla denuncia di
D'Alema, che definisce «dannose» le varie componenti culturali
nel Csm (le cosiddette correnti) e le accusa di «tutela corporativa».
Fondata o infondata che sia, la critica è fuori bersaglio: l'eventuale
corporativismo non dipende dall'esistenza o meno delle correnti,
ma dalla natura stessa del concetto di autogoverno previsto
dalla Costituzione: per limitarla, i costituenti posero rimedio
con la presenza di membri laici eletti dal parlamento. Che altro
si vuole? Impedire ai giudici di avere culture politiche e giuridiche
differenti? Si pretendono giudici che non pensano? Anche qui
sembra di sentir parlare qualcuno del governo. Così come quando
il presidente Ds chiede di indagare sulle carte giudiziarie
finite sui giornali a proposito delle scalate estive dei «furbetti
del quartierino»: a parte l'ineleganza di occuparsi di una vicenda
che coinvolge anche Unipol e il suo presidente (col quale D'Alema
intratteneva affettuosi rapporti telefonici nel bel mezzo dell'arrampicata
sulla Bnl): un rilievo che sottende una preoccupante ignoranza
del diritto, visto che nessuna delle notizie pubblicate dai
giornali erano segrete e dunque non c'e nulla da indagare. Almeno
sui giornalisti e sui magistrati. C'è invece molto da indagare
su certi finanzieri azzurri, bianchi e rossi, e sui loro amici
politici.
Ritorno ai Valori
Il dato più sconcertante del
solenne convegno di Italianieuropei dedicato a «Giustizia e
politica: appunti per un programma di governo» è però ancora
un altro. E' cioè il nome di uno dei relatori invitati al dibattito:
Giancarlo Elia Valori, oggi presidente dell'Unione Industriali
del Lazio, dell'autostrada Milano-Serravalle e dell'associazione
Italia-Francia, e ieri tante altre cose. Trattandosi di un personaggio
dalle molte vite e dalle molte facce, che ha la fortuna di vivere
in un paese di smemorati, un breve riassunto delle puntate precedenti
può esser utile. Nato a Meolo (Venezia) 72 anni fa, figlio di
un compagno di scuola di Amintore Fanfani, il piccolo Giancarlo
si trasferisce con la famiglia a Roma. La domenica serve messa
nella cappella di Vicolo della Luce, a due passi da San Pietro,
dove celebra la messa papa Giovanni XXIII. Presa la doppia laurea
in scienze politiche e in economia, si da alla politica candidandosi
per la Dc alle amministrative del 1966. II che non gli impedisce,
nei primi anni Settanta, di entrare nella massoneria. Il passaggio
alle partecipazioni statali è quasi automatico. Nel '73 il massone
democristiano è funzionario alla Rai del fanfaniano-opusdeino
Ettore Bernabei. Due anni dopo all'Italstat. Tre anni dopo nella
loggia P2, dove raggiungerà ben presto il grado di «maestro»,
subito sotto il venerabile Licio GeIIi. Nell'81 è vicepresidente
della Sme, il colosso agro-industriale dell'Iri, dove qualche
anno dopo sarà protagonista di epici scontri con Prodi. E continua
a bazzicare il clan Fanfani, oltre a essere molto introdotto
nella magistratura, romana e non solo. C'è chi è pronto a giurare
che la sua ultima amicizia con il procuratore generale romano
Carmelo Spagnuolo, suo fratello di loggia P2, non sia estranea
alla brillante conclusione di un'indagine sulla gestione allegra
della Rai: tutti prosciolti. Suo fratello Leo, dirigente dell'Eni
in Argentina, lo mette in contatto con il dittatore Arturo Frondizi
e poi con Juan Domingo Peron, che diventa suo amico. Sarà proprio
Valori a presentarlo a Gelli e ad affittare un Dc8 Alitalia
per riportarlo in Argentina con la moglie Isabelita quando la
coppia presidenziale, già cacciata una volta da Buenos Aires,
torno al potere sul balcone della Casa Rosada. Valori per i
dittatori ha un'autentica attrazione, un trasporto spontaneo.
Gli basta un viaggio a Bucarest per innamorarsi perdutamente
di Ceausescu, al quale dedica subito un'agiografia. Segue la
traduzione italiana dell'opera omnia del tiranno da lui curata
per SugarCo (l'editrice di Craxi e De Michelis). Nel 1980 firma
a Bucarest per conto dell'Iri un accordo miliardario con il
Conducator per donare alla Romania una centrale nucleare. Poi
si dedica a un altro apostolo della democrazia: Kim II Sung,
conosciuto in una missione in Corea del Nord grazie ai buoni
uffici del PCI. Un colpo di fulmine. Valori torna in Italia
con un documento che lo nomina rappresentante commerciale di
P'yong-yang in tutta Europa. A quel punto, gli manca solo la
Cina. Valori scrive un libro encomiastico sulla rivoluzione
culturale, L'eredita di Mao, recensito con tutti gli onori dal
Corriere della Sera del piduista Franco Di Bella. E diventa,
come per incanto, docente emerito a Pechino, cosi emerito da
riuscire a organizzare nel '95 il pellegrinaggio di Gianfranco
Fini alla Grande Muraglia.
Tutto ciò non gli impedisce
di intrattenere affettuose amicizie con la Cia e con Israele.
Lo Stato ebraico entra nelle sue mire e spire a metà degli anni
Novanta: a mo'' di captatio benevolentiae, Valori scrive una
biografia di Ben Gurion per la Rizzoli; subito dopo ottiene
una laurea honoris causa e una cattedra a Gerusalemme; si candida
ad asfaltare il deserto con una splendida «autostrada della
pace»; e dà una mano a Fini per la sua prima visita in Israele.
Secondo Alberto Statera, uno dei pochi giornalisti italiani
che abbia osato raccontare le sue gesta, Valori gestisce pure
«una fiorente industria di lauree honoris causa». Cossiga, altro
amicone, l'ha nominato cavaliere di Gran Croce, il governo francese
gli ha regalato la Legion d'Onore.
Intanto, dietro le quinte, si
muove un altro Valori. Quello in versione grembiulino e compasso.
S'iscrive alla loggia Romagnosi nel '65, insieme a Gelli. Lo
presenta un altro futuro piduista: il suo dentista, Antonio
Colasanti, Segretario dell'Istituto per le relazioni internazionali,
Valori presenta Gelli a Peron poco prima che quest'ultimo ritorni
in patria (e al potere) dopo un pò d'esilio. Gelli vola subito
a Buenos Aires con una lettera d'accreditamento firmata da Valori
presso l'ex presidente Frondizi. E' il maggio '73: Licio diventa
ambasciatore della massoneria argentina in Italia, e il mese
successivo scorta Peron per la grande rimpatriata, con passaporto
diplomatico argentino e conseguente immunità. E quando, poco
dopo, riorganizza la P2, Valori è della brigata. Arricchisce
il gotha dei suoi amici con il generale Giuseppe Santovito (P2,
scandali e depistaggi vari), col faccendiere Francesco Pazienza
e soprattutto con Mino Pecorelli. Ogni domenica, dopo aver santificato
la festa, Valori è solito appartarsi con il giornalista piduista
(che su OP lo chiama affettuosamente «Fior di Loto») per un
proficuo scambio di informazioni: almeno finchè Pecorelli può
parlare. Poi, un giorno, lo trovano morto ammazzato.
Imbarazzante financo per Gelli,
Valori viene espulso dalla P2 dopo una rissa per strani affari
di carni. Anche la massoneria «regolare», loggia Romagnosi,
gli dà il benservito. Ma quando, nel maggio '81, i giornali
pubblicano le liste di Gelli, c'e pure il suo nome. Si scopre
cosi che il pio Giancarlo, «cameriere di Spada e Kappa» del
papa, pappaeciccia di vescovi e cardinali, adora il Padreterno
dei cattolici almeno quanto il Grande Architetto dell'Universo.
Essendo vicepresidente della Sme, azienda pubblica, finisce
sotto inchiesta davanti all'apposita commissione insediata dall'Iri
per espellere i piduisti. Ma è una burla: viene assolto, come
quasi tutti gli altri boiardi in grembiulino. Anzi, fa carriera:
da vice a presidente della Sme. Ora a proteggerlo non c'e più
soltanto Fanfani, ormai in declino: ci sono pure i suoi nuovi
amici Giulio Andreotti e Antonio Gava, il fior fiore della Dc.
Prodi, presidente dell'Iri, vorrebbe privatizzare la Sme e cacciare
lui. Statera sostiene addirittura che Valori si sarebbe salvato
«minacciando Prodi con indagini giudiziarie». Sia come sia,
è un fatto che l'uomo di giudici ne conosce parecchi (negli
anni Ottanta ne scarrozzava a decine in convegni organizzati
in luoghi ameni). E poi sindacalisti come Pietro Larizza, giornalisti
come Carlo Rossella, top manager come Cesare Romiti, giuristi
come Antonio Baldassarre. Nel '92, causa Tangentopoli, rotolano
le teste dei suoi vecchi padrini democristiani, ma Valori non
s'impressiona. Aggancia Gianfranco Fini e abborda Lamberto Dini.
Con Berlusconi non c'e bisogno di presentazioni: stavano insieme
nella P2. Così, quando la Sme finisce privatizzata, per lui
è gia pronta la poltrona di presidente della società Autostrade.
Walter Veltroni gli dedica mezza pagina d'intervista sull'Unita.
Dini sceglie la sua villa romana per annunciare agli amici l'imminente
discesa in campo con un partito tutto suo, Rinnovamento italiano.
E gli affari proseguono, come quello principesco fra Autostrade
e Omnitel per l'uso dei 3 mila chilometri di cavi in fibra ottica
che corrono sotto l'asfalto. Per il Pds è un referente insostituibile
nel ramo opere pubbliche. Qualche ulivista lo vorrebbe alle
Ferrovie, qualcun altro alla Stet. Antonio Di Pietro, appena
divenuto ministro dei Lavori pubblici, se lo vede piombare in
ufficio con alcune richieste niente male: il superprogetto per
la variante di valico Bologna-Firenze, un appalto senza gara
per la Salemo-Reggio Calabria e soprattutto il rinnovo della
concessione statale ad Autostrade, che scade nel 2018, fino
al 2033. Risposta del ministro: tre no.
Nell'ultima vita, Valori lascia
Autostrade per diventare il capo degli industriali del Lazio
e, per qualche mese, anche del consorzio Blu che concorre alle
licenze per i telefonini Umts (per quella gara verrà rinviato
a giudizio per turbativa d'asta, e poi assolto). Ma conserva
la presidenza della Milano-Serravalle, l'autostrada che ha fatto
litigare il sindaco ambrosiano Gabriele Albertini con gli ultimi
due presidenti della provincia: la forzista Ombretta Colli e
il diessino Filippo Penati, anche per via dei rapporti decisamente
troppo intimi fra l'azionista privato, l'ex latitante e plurinquisito
Marcellino Gavio, e il diessino Pierluigi Bersani. Intanto continua
a scrivere libri e a presentarli con tutta la Roma che conta.
Al vernissage del luglio scorso per I giusti in tempi ingiusti
(Rizzoli), c'erano padre Giovanni Marchesi di Civiltà Cattolica
e l'arcivescovo Gioia, il rabbino capo di New York Schnaier,
quello di Roma Riccardo Di Segni e l'ambasciatore israeliano
Hehud Gol. «Mi auguro», dichiara ecumenico l'ex amico di Ceausescu,
di Kim II Sung e dei dittatori argentini, «che questo libro
possa essere un piccolo grande seme per la causa della pace».
II 14 ottobre il presidente della Provincia di Roma Enrico Gasbarra
(Margherita) gli conferisce il premio Provincia Capitale in
condominio con uno scampato al lager di Dachau, con Giovanni
Bollea, con Carla Fracci, con Gianni Letta, con l'Opera romana
pellegrinaggi e con l'associazione Un ponte per. Magari, intendiamoci,
meritava quello e altri premi. Quel che forse non meritava era
un invito dalla fondazione dalemian-amatiana a dare un contributo
al programma dell'Unione sulla giustizia. Di sicuro non lo meritano
gli elettori del centro-sinistra, i quali ora avrebbero diritto
a una risposta: a quale titolo un ex piduista viene chiamato
a discutere del programma del prossimo governo per la giustizia?
In fondo la loggia P2 ha gia
contribuito da par suo al programma di questo governo, che ne
ha copiato il leggendario «Piano di rinascita democratica» senza
neppure versare il copyright al venerabile Licio. A meno che
qualcuno, nell'Unione, non pensi che anche quel piano, come
le leggi vergogna di Berlusconi, non sia tutto da buttare. Che
contenga «parti buone da salvare». Nel qual caso, ce lo facciano
sapere subito. Possibilmente prima delle elezioni.
|