«Onorevoli colleghi, il fatto è davvero grave. (...) Un'attività
spionistica ai danni del leader dell'opposizione che, da chiunque
sia stata ordita, rientra perfettamente nel panorama non limpido
della vita nazionale. Mai, in nessun periodo della storia repubblicana,
sono gravate sulla libera attività politica tante ombre e tanto
minacciose. (...) Le aule parlamentari possono diventare ricettacolo
per attività spionistiche di agenti provocatori (...) delazione,
provocazione, spionaggio. (...) Nella giustizia malata di questo
paese siamo arrivati fino alle intercettazioni virtuali. (...)
Si arriva al punto di falsificare un teste d'accusa affermando
che si tratta della registrazione scritta di un'intercettazione
ambientale mentre è soltanto il resoconto sommario di un origliamento
da bar». L'allarme era grave, e l'ora drammatica, quel 16 ottobre
1996, quando dinanzi all'aula di Montecitorio gremita come non
mai il cavalier Silvio Berlusconi arringò gli onorevoli colleghi,
mai così sgomenti e silenti. Cinque giorni prima, l'11 ottobre,
dietro un termosifone della sua magione di via del Plebiscito
a Roma, lo statista di Milanello aveva rinvenuto una cimice. Subito,
prima ancora di avvertire i carabinieri e la procura, aveva avvisato
prima l'amico Massimo» (D'Alerna, segretario del Pds e candidato
alla presidenza della commissione Bicamerale per le riforme istituzionali)
e poi le telecamere dell'amica Rai e dell'amica Mediaset. La microspia,
delle dimensioni di un frigobar, «era molto sofisticata e perfettamente
funzionante, tanto da poter trasmettere fino a 300 metri di distanza»,
almeno secondo le parole usate dal Cavaliere, nell'improvvisata
conferenza stampa a caldo. Sotto accusa le fantomatiche «procure
eversive», che pur di spiare il capo dell'opposizione calpestano
l'immunità parlamentare. La cosa destò unanime scalpore, si invocarono
immediate riforme contro il malvezzo delle intercettazioni. si
denunciò l'ignobile attentato al leader dell'opposizione. Clima
da vigilia di golpe, allarme democratico ai massimi livelli. Il
presidente della Camera Luciano Violante, sempre cosi sensibile,
convocò d'urgenza l'assemblea in seduta straordinaria. E lì, al
microfono, si alternarono i leader della maggioranza e dell'opposizione.
Solo Maroni e Veltri, malfidati, ipotizzarono che il Cavaliere
la cimice se la fosse messa da solo.
Il professor Buttiglione parlò di «scandalo non inferiore al Watergate».
Lamberto Dini denunciò: «Sono a rischio le libertà fondamentali».
Mussi reclamò un'imprescindibile «riforma dei servizi segreti».
Manconi addirittura il licenziamento in tronco di «tutti i vertici
di tutti i troppi servizi di informazione, intelligence, spionaggio
e controspionaggio». Previti mise subito le mani avanti:
«I servizi non centrano e non si toccano». Gli onorevoli di An
Lo Presti, Fragalà, Simeone e Cola invocarono una commissione
parlamentare d'inchiesta. Craxi si fece sentire da Hammamet: «
E' un'azione da professionisti, una sporca operazione a orologeria
politica». Sgarbi colse l'occasione per chiedere le immediate
dimissioni di Antonio Di Pietro da ministro dei Lavori pubblici.
Tiziana Maiolo parlò «di rapporti occulti e illegali fra politica,
magistratura e criminalità». Mancuso si limitò a un laconico commento:
« Villani!». Rebuffa ventilò una «guerra per bande fra apparati
polizieschi e giudiziari». Taradash puntò diritto sui «poteri
occulti», magari collegati con «qualche procura che non perde
occasione per farci sapere che la Costituzione non conta nulla».
Paolo Cento tuonò contro il «clima torbido e chiese l'intervento
del Viminale. Pisanu evocò le «procure deviate» e gli «agenti
provocatori penetrati in parlamento per indurre i deputati a commettere
reati». La Loggia minacciò: «Qualcuno dovrà pagare».
Ma non pagò nessuno. Anche perché, a pagare, avrebbe dovuto essere
la presunta vittima del presunto attentato: il cavalier Berlusconi
medesimo. Infatti fu indagato, per truffa e simulazione di reato,
un tal Paolo Izzi, titolare della «Sirte Service» di Pomezia,
chiamato dallo stesso Berlusconi a «bonificare» la sua dimora,
e sospettato di aver piazzato il cimicione (un ferrovecchio che
non funzionava da anni) per poi farlo ritrovare. Un cimicione
fatto in casa. Così la procura di Roma chiese mestamente l'archiviazione
della tragicomica denuncia del leader di Forza Italia per spionaggio
politico, violazione di domicilio, intercettazione abusiva, abuso
d'ufficio e addirittura attentato ai diritti costituzionali del
capo dell'opposizione. E il gip Salvatore Giangreco accolse la
richiesta, stendendo un velo pietoso sulla grottesca vicenda.
Ma se le presunte minacce al Cavaliere si sono rivelate, fin qui,
altrettante bufale, non possono dire la stessa cosa alcuni personaggi
che hanno attraversato la sua strada senza chiedergli il permesso.
Gianfranco Mascia, 33 anni, pubblicitario di Ravenna e (lirigente
dei Verdi del «Sole che ride», fondò i comitati Bo.Bi., «Boicottiamo
il Biscione», nel '93, alla vigilia della «discesa in campo» del
Cavaliere. Un giorno si presentò nella sede di Forza Italia del
suo comune per iscriversi, sotto falso nome, al nuovo partito.
Poi andò da Michele Santoro, a Il Rosso e il Nero, e raccontò
la sua esperienza di insider. Un'altra volta, a Torino, si calò
in una fontana per contestare una visita pastorale di Berlusconi,
con lo striscione: «Rema contro l'Unto, sgrassa con Bo.Bi.». Il
primo avvertimento anonimo gli arrivò sul telefonino: «Smettila
di rompere i coglioni. Hai la voce da deficiente. Sei una testa
di cane. Bastardo. Vi conosciamo tutti. Vi spacchiamo il culo.
Gruppo Silvio Forever». Dalle parole ai fatti: il 24 febbraio
'94, a un mese dalle elezioni, in pieno giorno (ore 11), due uomini
a volto scoperto fecero irruzione nel suo studio, appena fuori
città. «Sei tu Gianfranco Mascia?». «Sì, perché?». «Finalmente
ti abbiamo trovato. Tu lo sai perché siamo qui». Gli immobilizzarono
le mani e le gambe col filo di ferro, gli otturarono la bocca
con un tampone. A seguito delle bestiali violenze svenne e riacquistò
i sensi solo dopo due ore. Fu ricoverato in stato di choc, subì
serie conseguenze a livello psicologico, non riuscì mai a identificare
i suoi aggressori. Furono sospettati due buttafuori di una discoteca
del Veronese, ma poi l'inchiesta finì in nulla. Intanto il portavoce
del Bo.Bi. di Bologna, Filippo Boriani, consigliere comunale dei
verdi, denunciò di aver ricevuto una busta per posta: dentro,
una lingua di vitello mozzata e un biglietto con scritto: «La
prossima sarà la tua».
Edoardo Pizzotti, direttore degli affari legali di Publitalia,
venne licenziato su due piedi nell'autunno '94, dopo aver rifiutato
di coprire i maneggi di un nuovo pittoresco «consulente» dell'azienda,
l'avvocato cuneese Giorgio Bertone, ingaggiato da Marcello Dell'Utri
per distruggere le carte compromettenti sulle false fatture appena
scoperte dalla procura di Torino. Il primo e l'ultimo dirigente
mai licenziato nella storia del gruppo Fininvest. «Fu», racconta
Pizzotti al processo di Torino a carico di Dell'Utri, nel 1996,
«una rappresaglia per essermi io rifiutato di coprire le attività
illecite dell'avvocato Bertone e di altri personaggi», Dell'Utri
compreso. Pizzotti fu licenziato in tronco il 20 ottobre '94.
L'indomani cominciò a ricevere strane telefonate mute, chiaramente
minatorie, a casa. Telefonate che, come dimostrano i tabulati
Telecom, provenivano dal suo apparecchio d'ufficio a Publitalia.
Altre lo raggiunsero «da località balneari del Sud della Francia».
Poi, «il giorno immediatamente dopo l'udienza dal pretore del
lavoro (cui s'era rivolto per far annullare il licenziamento,
n. d. a.), il 17 gennaio '95, pochi giorni dopo che ero stato
a Torino a deporre come teste (in procura, sulle false fatture
di Dell'Utri, n. d. a.), ero in centro a Milano. Pochissimi minuti
prima delle 6, mi sono avvicinato a una cabina "a guscio" per
telefonare a mia moglie, e mentre stavo armeggiando sono stato
preso alle spalle, diciamo un po' rivoltato. Io ho fatto un po'
di resistenza. C'erano due figuri, uno mi si è piazzato diritto
in faccia, l'altro invece girava un po' attorno, e mi ha detto
delle espressioni, le prime assolutamente incomprensibili, direi
in dialetto campano, poi m'ha detto: "Guarda che ti facciamo scoppiare
la testa, te la facciamo scoppiare davvero!, ha girato attorno
e poi i due se ne sono andati per la strada». Nei mesi seguenti,
ancora «un'infinità di telefonate mute, ma veramente un'infinità.
anche più di 10-15 al giorno. Per sei mesi...».
Nel luglio 1995 Stefania Ariosto inizia a raccontare al pool di
Milano le mirabolanti imprese dell'avvocato Cesare Previti e dei
suoi amici giudici romani, come Renato Squillante e Filippo Verde,
con tanto di presunte mazzette per acquistare sentenze a un tanto
al chilo, e inseguimenti nel garage del circolo Canottieri Lazio
al grido di «A Rena', te stai a dimentica' 'a bbusta!». I suoi
scottanti verbali vengano secretati e la notizia rimane riservata
per 7 mesi, almeno per il grande pubblico: si scoprirà più tardi
che Previti e altri amici avevano almeno subodorato la cosa ben
prima che diventasse pubblica, con il casuale ritrovamento della
famosa microspia al bar Tombini e il conseguente arresto di Squillante
& C. Fin da subito, comunque, la donna viene munita di una protezione
armata e va ad abitare a casa di amici. Ciononostante, il 23 dicembre
1995, un fattorino consegna al portiere dell'abitazione un pacco
dono per lei. Lei lo apre. Contiene un coniglio sgozzato e scuoiato,
con un biglietto d'auguri: «Buon Natale». Da allora le minacce
di morte - telefoniche, postali e personali - non cesseranno più.
Chiara Beria d'Argentine era vicedirettrice dell'Espresso, il
23 maggio 1996, quando un misterioso incendio doloso mandò letteralmente
in polvere la sua villa sulla collina di Camaiore. Incendio appiccato
dopo aver cosparso il seminterrato di una miscela esplosiva. «Il
tetto è volato via, non s'è salvato nemmeno un cucchiaino», disse
la donna sconvolta. Qualcuno pensò subito alla sua più recente
inchiesta giornalistica, che in aprile aveva portato alla pubblicazione
del famoso album di famiglia di Stefania Ariosto, col contorno
di Berlusconi, Previti, avvocati, magistrati e parenti tutti,
immortalati in barche, in ville e a New York, nell'indimenticabile
pellegrinaggio aereo organizzato dall'apposito Cesare a spese
del Psi per festeggiare degnamente la premiazione di Bettino Craxi
come «uomo dell'anno» dell'associazione Niaf. Proprio quel giorno,
l'Espresso usciva con una copertina dal titolo «Forza Ilda» e
una grande fotografia del pm Ilda Boccassini, impegnata nell'inchiesta
«toghe sporche». Il leghista Mario Borghezio parlò di «attentato
di stampo mafioso» e invitò il governo a verificare se esso fosse
«da ricollegarsi con la recente inchiesta sui loschi affari legati
a un pool di magistrati e avvocati romani in concorso con noti
esponenti politici e imprenditoriali». Le indagini della procura
di Lucca accertarono subito che la giornalista non aveva mai,
in precedenza, ricevuto minacce, salvo due brevi telefonate mute
il giorno precedente l'attentato. E imboccarono ben presto la
pista della ritorsione per la sua attività giornalistica, tant'è
che furono consultati anche i pm del pool di Milano. Venne anche
indagato per incendio doloso un pregiudicato per reati di droga.
Che però, dopo una prima proroga di sei mesi delle indagini, venne
prosciolto. E la cosa finì lì.
Il resto è cronaca delle ultime settimane. Indro Montanelli attacca
Berlusconi in tv e subito riceve sul telefono privato di casa
(il numero è noto a pochissime persone) una raffica di chiamate
da voci femminili che lo insultano e lo minacciano. Una lettera
minatoria lo attende sul tavolo del ristorante dove, la domenica
seguente, va a pranzo con il direttore del Gorriere della Sera
Ferruccio De Bortoli.
Il finanziere pregiudicato Filippo Alberto Rapisarda, siciliano,
ex principale, ex socio ed ex amiCO di Marcello Dell'Utri, rivela
in tv, a Il raggio verde di Michele Santoro, di avere subito intimidazioni
e attentati ogni qual volta ha parlato con i giudici antimafia
di Dell'Utri: nel 1987, dopo la prima denuncia per collusioni
mafiose, uno sconosciuto lo minacciò di morte davanti a casa;
nel 1998, dopo aver accusato Marcello di riciclaggio a Palermo,
scoprì per caso che qualcuno aveva tranciato di netto i fili del
motore del suo aereo privato; dieci giorni fa, dopo l'intervista
su Dell'Utri concessa a Sandro Ruotolo di Il raggio verde, una
lettera da Palermo con tre proiettili. La redazione di Santoro,
intanto, riceveva lettere e telefonate minatorie e sul muro di
fronte alla casa di Ruotolo compariva la scritta: «Ruotolo, merda
comunista». Firmato: una croce celtica, simbolo di Forza nuova.
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Marco Travaglio
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