Un foglietto con gli estremi di un bonifico
bancario: 240 milioni girati nel 1994 da Felice Rovelli all'avvocato
romano Attilio Pacifico, braccio destro di Cesare Previti. Il
giallo dell'Imi-Sir parte di lì, da quel bigliettino rinvenuto
quasi per caso dagli agenti del Servizio centrale operativo
della polizia, il 12 marzo 1996, nell'ufficio di Pacifico appena
arrestato. O meglio: riparte di lì, perchè era cominciato 15
anni prima. Nei primi anni '80, quando Nino Rovelli - petroliere
andreottiano, quello degli «assegni del Presidente» di cui parlò
Mino Pecorelli poco prima di morire ammazzato - fece bancarotta
con il suo impero, la Sir. E se la prese con l'Imi, la banca
pubblica che a suo dire l'aveva mandato in rovina promettendogli
finanziamenti e poi negandogli. Iniziò così una lunga e tortuosa
partita giudiziaria che si sarebbe conclusa provvisoriamente
nel 1994 per riaprirsi nel 1996, grazie a quel bigliettino.
Una via crucis dalle infinite stazioni ricostruita, quasi minuto
per minuto, da Ilda Boccassini in base ai documenti e alle deposizioni
processuali.
Primo grado. La prima sentenza l'emette il tribunale civile
di Roma, nel 1986, e dà ragione alla Sir: l'Imi le deve un risarcimento,
da quantificare separatamente. Presiede il collegio il giudice
Filippo Verde, amico di Previti e socio di Pacifico, che gli
regala telefonini, gli mette a disposizione una stanza d'albergo
per le trasferte al tavolo verde, e soprattutto gli gestisce
un conto in Svizzera (Master 811) dove ogni tanto versa qualche
centinaio di milioni. Giudici a latere, Aida Campolongo, fedelissima
di Verde; Paolo Zucchini, iscritto alla loggia P2, titolare
di un conto a Montecarlo dove risulta almeno un versamento di
Pacifico per 200 milioni (slegati però dalle cause). Del risarcimento
si occupa nel 1989 un altro collegio, presieduto da un giudice
al di sopra di ogni sospetto: Carlo Minniti. Studia le carte,
ne conclude che i colleghi hanno sbagliato: medita di ribaltare
il primo verdetto, intanto disporrà una perizia per vederci
più chiaro. Alla vigilia dell'udienza decisiva, il 4 aprile,
lo convoca il presidente della Corte d'appello, Carlo Sammarco,
per sondare le sue intenzioni. Strana curiosità, visto che non
è lui il capo di Minniti. Ma questi, ingenuamente, gli confida
quel che farà. Il 4 aprile mattina tutto è pronto per l'udienza,
senonchè il presidente Minniti riceve una telefonata dal ministero
della Giustizia. Lo vogliono subito lì per una riunione, urgente
e improrogabile, sull'edilizia carceraria, e da Via Arenula
non sentono ragioni. Deve andare. Si fa sostituire da una collega,
pregandola di prendere tempo in attesa del suo ritorno. La riunione
ministeriale si rivela poi una bufala: dura un'oretta, non viene
verbalizzata: aria fritta. Minniti si precipita in tribunale,
e qui scopre che la collega non solo non ha rinviato, ma ha
chiuso l'udienza sentenziando sul risarcimento: 670 miliardi,
denaro pubblico. Chi è la collega sostituta che ha firmato l'incredibile
sentenza? La Campolongo, fedelissima di Verde. E chi è il funzionario
che ha convocato Minniti al ministero, per quella riunione-fantasma?
Filippo Verde, nel frattempo promosso capo di gabinetto del
ministro Giuliano Vassalli.
Il primo ricorso dell'Imi
Secondo grado. L'Imi ricorre in appello e in Cassazione, e questa
le dà ragione, annullando la prima sentenza Verde con toni piuttosto
categorici. Ma nel novembre 1990 la Corte d'appello di Roma,
ignorando la Cassazione, torna a dare ragione alla Sir: 1000
miliardi alla Sir. Chi scrive la sentenza? Il giudice Vittorio
Metta, amico di Acampora, autore della sentenza che annullava
il lodo Mondadori (consegnando la casa editrice a Berlusconi),
che di lì a poco andrà in pensione e subito otterrà una consulenza
da 100 milioni all'anno come avvocato nello studio di un altro
amico: Cesare Previti.
Terzo grado. L'Imi ricorre in Cassazione. E qui accade di tutto.
Gli avvocati della Sir, pur possedendo tutte le carte della
causa, chiedono alla cancelleria del Palazzaccio copia di ogni
foglio. Migliaia e migliaia di pagine. Poi presentano una strana
richiesta: controllare se, dal fascicolo, non sia per caso scomparsa
la «procura speciale ad litem» della controparte. Cioè quel
foglietto che gli avvocati allegano ai ricorsi, con la delega
rilasciata dal cliente per rappresentarlo in giudizio. I giudici
controllano così, pro forma, e invece scoprono che quegli avvocati
hanno doti divinatorie: la procura è sparita. Partita chiusa,
sostiene la Sir: niente procura, niente ricorso Imi. Definitiva
la sentenza d'appello, quella firmata da Metta, con relativo
risarcimento. L'Imi presenta due denunce per la sottrazione
del documento, entrambe vengono archiviate dall'ufficio Gip,
diretto da Renato Squillante (che per la prima denuncia si batte
per un'archiviazione «per insussistenza del fatto», e non solo
perchè ne erano rimasti ignoti gli autori). In Cassazione si
tenta di salvare il salvabile. L'udienza davanti alla I sezione
civile è fissata per il 29 gennaio 1992. Il presidente, Giancarlo
Montanari Visco, è un giudice all'antica, tutto d'un pezzo:
viene subito eliminato con una lettera anonima, che lo accusa
falsamente di frequentare amici dei Rovelli. Si astiene e nomina
un collega altrettanto perbene: Giuseppe Scanzano. Il quale
manda gli atti alla Consulta, sollevando eccezione di incostituzionalità
sulla norma che vieta di esaminare i ricorsi sprovvisti di procura
ad litem; siamo nel febbraio del '90. In novembre, la Corte
costituzionale risponde picche: niente procura, niente ricorso.
Chi firma la sentenza che chiude la partita a favore dei Rovelli?
Il giudice costituzionale Antonio Baldassarre, altro amico di
Previti. La palla torna dunque alla Cassazione, dove un terzo
presidente, Mario Corda, tenta un'ultima carta: modificare la
giurisprudenza in punta di diritto e tentare di esaminare ugualmente
il ricorso dell'Imi. Studia il fascicolo nei dettagli, e prepara
per gli altri quattro giudici del collegio un appunto manoscritto.
L'appunto, segretissimo, viene fotocopiato in quattro esemplari
e recapitato in buste sigillate nelle caselle postali dei colleghi.
Qualcuno, però, lo passa all'esterno: al solito corvo, che torna
a farsi vivo con un altro anonimo, che infatti scrive subito
a Corda e al primo presidente della Cassazione per avvertirli
di possedere una copia del manoscritto. Corda potrebbe essere
accusato di aver anticipato la sua decisione, e venire ricusato.
Ma ormai la puzza di complotto intorno al caso Imi-Sir è tale
che il presidente tiene duro, e prospetta al primo presidente
una soluzione: scriverà una lettera di dimissioni, che il capo
gli respingerà. Il capo dice di procedere. Poi, anzichè respingere
le sue dimissioni, le accoglie. Chi è il primo presidente? Antonio
Brancaccio, altro buon amico di Previti.
Il debito di Rovelli
Così «salta» anche il quarto presidente. Minniti, Montanari
Visco, Scanzano e ora Corda. Il sostituto, Vincenzo Salafia,
decide di finirla lì, dichiara improcedibile il ricorso dell'Imi
e il 27 maggio 1993 la condanna definitivamente a pagare 1000
miliardi alla Sir. Quattro giorni dopo, il 31 maggio, l'anonimo
corvo recapita ai giudici, impegnati nella motivazione della
sentenza, la procura speciale dell'Imi in originale, ma priva
del margine sinistro e del lembo superiore (dove di solito si
appongono i timbri di deposito). Il collegio si divide: due
sono per riaprire il caso, due per lasciare le cose come stanno.
Il presidente si schiera con i secondi: è troppo tardi. Al processo
di Milano, emergerà che Corda, se fosse rimasto al suo posto,
si sarebbe schierato con i primi e il ricorso dell'Imi sarebbe
stato accolto.
La miniera d'oro. Il 13 gennaio '94 l'Imi liquida i 1000 miliardi
alla Sir. Rovelli non c'è più: è morto il 31 dicembre 1990.
Ma poco prima di spirare ha lasciato detto al figlio Felice
e alla moglie Primarosa Battistella di saldare un mega-debito
che ha contratto con Pacifico. Dopo il funerale, i due contattano
lo sconosciuto avvocato. Da lui apprendono che anche altri due
colleghi «avanzano» del denaro dal defunto: Previti 21 miliardi,
Acampora 13 e lui, Pacifico, 33. Totale: 67 miliardi. Prove?
Documenti scritti? Fatture? Nemmeno l'ombra. Tutto sulla parola.
Ma gli eredi Rovelli pagano senza batter ciglio. Non subito:
solo nel 1994, appena incassato il mega-risarcimento Imi (di
cui quei 67 miliardi sono esattamente il 10%). Eppure i tre
avvocati in quella causa non pare abbiano fatto nulla: i legali
dell'Imi sono i professori Mario Are e Michele Giorgianni, anche
loro pagati estero su estero (esentasse), ma molto meno dei
tre «nullafacenti». «Abbiamo trovato i piccioli, un fiume di
denaro, una miniera d'oro», dirà Ilda Boccassini nella requisitoria.
L'accusa. Secondo il pm, quei 67 miliardi erano il prezzo della
corruzione, per almeno due sentenze comprate (la prima di primo
grado e quella d'appello), per la «sparizione» del giudice Minniti
dal Tribunale e della procura speciale in Cassazione. Anche
perchè dai tabulati telefonici risultano telefonate fra Previti,
Pacifico, gli eredi Rovelli e il giudice Squillante (che avrebbe
dovuto occuparsi solo di penale, non di cause civili) nel biennio
più caldo del caso Imi-Sir. E varie prove di un loro attivo
e informale interessamento all'affare. Pacifico chiama un cancelliere
per conoscere in diretta la composizione dei collegi e le loro
variazioni (il cancelliere sarà premiato con qualche biglietto
omaggio per la «Corrida» negli studi di Canale5). Squillante
contatta l'avvocato Francesco Berlinguer per farlo incontrare
con Felice Rovelli. Questi, poi, lo vede un paio di volte e
gli offre 500 milioni in cambio di una missione segretissima:
dovrà avvicinare una giudice del collegio di Cassazione, sardo
come lui, e farsi anticipare il giudizio. Nello stesso periodo,
Berlinguer parla spesso con lo studio Previti.
Una pioggia di denaro
Poi ci sono i passaggi di denaro. Oltre ai 67 miliardi, passati
dai conti svizzeri dei Rovelli a quelli di Previti, Pacifico
e Acampora, ci sono i quattrini per i giudici. Anzitutto Verde:
fin dal 1991, a causa in corso, Pacifico gli apre il conto Master
811 e gli versa 500 milioni provenienti da una provvista di
1.8 miliardi giratagli da Previti; nel '94, mentre i Rovelli
pagano i tre avvocati, Verde riceve altri 280 milioni. Quanto
a Squillante riceve da Pacifico 133 milioni nel 1991; aveva
addirittura uno dei suoi conti esteri (intestato alla Iberica
Development) presso la Banca commerciale di Lugano, di cui è
azionista la famiglia Rovelli: lì, sempre nel '94, riceve bonifici
o contanti per 920 milioni.
Le difese. Previti, a proposito dei suoi 21 miliardi, parla
inizialmente di «parcelle di una vita». Poi, interrogato dal
pool nel 1997, cambia versione: «Quei soldi non erano per me,
erano un mandato di pagamento che mi aveva affidato Rovelli:
io trattenni soltanto 2 miliardi e girai gli altri 19 a professionisti
di cui non posso fare il nome. Ma non sono magistrati nè pubblici
ufficiali». Dalle rogatorie, però, risulta che i professionisti
non esistono: anche quei 19 miliardi Previti li girò a se stesso,
dalla Svizzera alla Bahamas. «Parlai di mandato di pagamento
perchè temevo che il fisco si scatenasse nei miei confronti
con effetti rovinosi», si difenderà in aula. Infatti su quei
21 miliardi, incassati estero su estero proprio nel '94, mentre
giurava fedeltà alla Repubblica come ministro della Difesa (Berlusconi
lo voleva alla Giustizia, ma Scalfaro sventò almeno quella minaccia),
non aveva pagato una lira di tasse. Così ritornerà alla versione
«vecchia parcella»: 3 miliardi promessi da Rovelli negli anni
'70 in cambio di imprecisati servigi e consulenze e poi, con
l'andar del tempo e degli interessi, lievitati fino a quella
cifra iperbolica. E le telefonate con Squillante e Pacifico
nel pomeriggio del 29 gennaio '92, giorno decisivo della causa
Imi-Sir in Cassazione? «Erano per organizzare una partita di
calcetto al circolo Canottieri Lazio».
Anche Pacifico accenna a un'antica parcella per imprecisate
«consulenze valutarie» a Rovelli, quadruplicata da una indovinata
speculazione sull'oro. Niente di scritto che dimostri che sia
vero: tutto sulla parola. A parte una scrittura privata, affidata
- anzichè a un notaio - al portiere di un hotel di Montecarlo.
E andata dunque disgraziatamente perduta. Altro mistero: come
dimostrano i suoi numerosi conti, Pacifico era un investitore
pignolo e oculato. Ma una sola volta in vita sua divenne improvvisamente
sprecone: dopo il versamento dei Rovelli, nel '94. Invece di
far fruttare subito quei 33 miliardi con rendimento del 4%,
li chiuse in cassaforte lasciandoli dormire senza guadagnarci
una lira per sei mesi, una perdita secca di 600 milioni. Poi,
all'improvviso, ricominciò a investire oculatamente tutti i
quattrini che gli capitò di versare di lì in poi. Perchè quei
180 giorni di «parcheggio» autolesionistico, e proprio per la
provvista Rovelli? Perchè - risponde l'accusa - quei soldi non
erano tutti per lui: una parte la doveva spartire con i giudici
corrotti.
I giudici Metta, Squillante e Verde negano di aver mai compravenduto
sentenze. Squillante spiega i 9 miliardi che teneva in Svizzera
con la straordinaria propensione al risparmio della sua famiglia.
E i soldi avuti da Pacifico durante la causa Imi-Sir? Frutto
di affari e investimenti in comune, di «compensazioni» di contante
che Pacifico gli portava in Italia, ricevendo il corrispettivo
via bonifico in Svizzera.
E i soldi da Pacifico a Verde? I 280 milioni del '94, spiegano
concordi, erano la restituzione di un prestito che il giudice
aveva concesso all'amico avvocato per saldare un improvviso
debito di gioco al casinò di Montecarlo. Pacifico aveva il conto
in rosso, e non sapeva dove attingere. Appena risalì, restituì.
Strano: perchè nello stesso periodo anche Verde era in rosso,
anzi ancora più in rosso di Pacifico. Tant'è che dovette operare
in «scoperto di conto». Perchè non fece altrettanto Pacifico,
in una situazione analoga?
Prima condanna, il 20 luglio 20001 Giustizia parallela. La risposta
più probabile a questo groviglio di interrogativi è quella scritta
il 20 luglio 2001 dal Tribunale di Milano, che ha condannato
l'avvocato Giovanni Acampora a 6 anni di reclusione e a versare
1000 miliardi di provvisionale alla parte civile Imi, per corruzione
in atti giudiziari. Nella motivazione, scritta dal giudice Marco
Tremolada, si evidenziano «le plurime anomalie della sentenza
Metta», e la straordinaria coincidenza di quei 67 miliardi che
rappresentano il 10%: che non è un caso ma «il compenso dell'intermediazione
per l'attività di corruzione prestata» da «tre avvocati che
non hanno saputo giustificare il compenso, non avendo svolto
alcun incarico lecito nella causa stessa o altro incarico in
qualche modo documentato.... Gli intensi e anomali rapporti
di questi tre avvocati, tra loro e con giudici e altri pubblici
ufficiali che hanno partecipato alla vicenda processuale, rappresentano
un ulteriore fortissimo indizio dell'attività di corruzione
prestata, soprattutto se si tiene conto che questi giudici hanno
ingentissimi patrimoni all'estero che non hanno saputo giustificare
in modo esauriente e completo... Gli accertati episodi di condizionamento
della causa a favore di Rovelli (ivi comprese le reiterate sostituzioni
di giudici "sgraditi") rappresentano un ulteriore grave indizio
della attività di corruzione sottostante... In quest'ottica
il mondo descritto dalla teste Ariosto si è rivelato del tutto
verosimile... e le sue dichiarazioni sono direttamente confermate
da numerosi elementi obiettivi... Se Previti infatti garantiva
rapporti sociali di elevato livello (viaggi, conoscenze con
il potere politico, Pacifico gestiva una serie di rapporti personali
forse meno appariscenti ma altrettanto importanti, sia con i
magistrati, a loro volta con funzione di intermediari o di collettori
(in particolare il giudice Squillante), sia con dipendenti del
Palazzo di giustizia, sia infine con soggetti che garantivano
canali di trasferimento del denaro all'estero o viceversa...
Questa struttura di intermediazione aveva nel Squillante il
suo "cavallo di Troia", perchè proprio grazie a Squillante,
giudice influente all'interno del palazzo di giustizia di Roma,
godeva di una capacità di infiltrazione tanto insospettabile
quanto efficiente e in grado di espugnare qualsiasi settore
di esercizio del potere giudiziario... Squillante era l'epicentro
di un autentico "sistema" di gestione alternativa e illecita
degli affari giudiziari. Perfino il coimputato Previti definisce
l'amico Squillante come un giudice generoso, sempre pronto ad
aiutare chiunque avesse un problema... Le tesi difensive degli
altri due imputati (Previti e Pacifico, ndr) appaiono parimenti
inverosimili (come quelle di Acampora, ndr), anche perchè entrambe
contraddette da elementi documentali... In conclusione, non
vi possono essere dubbi che, pur nell'ambito di una ricostruzione
indiziaria dei fatti, venne operata la corruzione di alcuni
pubblici ufficiali per ottenere, nella controversia Imi-Sir,
un esito favorevole a Rovelli, tanto ingente quanto ingiustificato,
come pure non vi possono essere dubbi che questa attività corruttiva
per conto dei Rovelli venne svolta dagli avvocati Pacifico,
Previti e Acampora, tanto che agli stessi, dopo il pagamento
da parte dell'Imi, venne versato un compenso astronomico, del
quale tuttavia nè gli eroganti nè i riceventi hanno saputo fornire
una seria giustificazione».
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