Il Presidente della Repubblica non deve
essere figura "super partes" nel senso di equidistante
tra le due coalizioni, o imparziale rispetto
ai valori in conflitto. Il Presidente della
Repubblica rappresenta l'unità della nazione
nel segno della Costituzione. E' il CUSTODE
della Costituzione, il suo garante, dunque l'intransigente
difensore dei valori da cui nasce la Costituzione
repubblicana. In questa senso preciso, quale
candidatura (e perché) è più indicata per un
Presidente di tutti gli italiani?
Ha ragione Claudio
Rinaldi: non s'è mai visto, in Italia, un presidente
della Repubblica che sia il "dominus" di un
grande partito. Saragat era segretario di un
piccolo partito. Gronchi, Segni, Leone e Cossiga
erano outsider nella Dc, e Pertini lo era nel
Psi, mentre Einaudi e Ciampi erano tecnici prestati
alla politica ma estranei ai giochi di partito.
Massimo D'Alema è indiscutibilmente l'azionista
di maggioranza dei Ds. Senza contare che gli
eredi del vecchio Pci, usciti dalle elezioni
con meno del 30 per cento della somma dei voti,
hanno già avuto la terza carica dello Stato
con Bertinotti: attribuire loro anche il Quirinale
parrebbe francamente eccessivo rispetto agli
orientamenti emersi nel Paese dalle ultime elezioni.
C'è poi il problema del presidente della Repubblica
come "custode e garante della Costituzione":
che custode e garante potrebbe essere un D'Alema,
che come presidente della Bicamerale firmò una
controriforma che faceva a pezzi l'intera seconda
parte della Costituzione, violando anche alcuni
principi contenuti nella prima e accettando
indecenti compromessi al ribasso sulla giustizia
e l'indipendenza della magistratura? Lo stesso
dicasi per Giuliano Amato, grande architetto
della cosiddetta "Grande Riforma" costituzionale
in senso presidenzialista- cesarista ai tempi
di Craxi.
Giuliano
Amato, Massimo D'Alema, Franco Marini? Due accaniti
e autorevolissimi sostenitori di Berlusconi
come Giuliano Ferrara e Vittorio Feltri stanno
svolgendo una martellante campagna mediatica
a favore della candidatura di D'Alema. E favorevoli
a D'Alema si sono nella sostanza dichiarati
altri pasdaran berlusconiani come Paolo Guzzanti
e don Gianni Baget Bozzo. Non c'è il rischio
che una elezione di D'Alema avvenga nel modo
più equivoco, con franchi tiratori del centro-sinistra
compensati da franchi tiratori (a lui favorevoli)
del mondo berlusconiano, mentre quello stesso
mondo griderà alla "occupazione comunista" dello
Stato?
Oltre agli sponsor
di D'Alema già citati, vorrei ricordare che
D'Alema è anche il candidato di altri autorevoli
personalità come i pregiudicati Marcello Dell'Utri
e Paolo Cirino Pomicino, il presidente di Mediaset
Fedele Confalonieri, il latitante Oreste Scalzone,
Lanfranco Pace, Francesco Cossiga, Piero Ostellino,
Pietrangelo Buttafiuoco, Marcello Veneziani,
Carlo Rossella, Falco Accame. Bisognerebbe domandarsi
perché mai D'Alema piaccia così tanto a personaggi
simili. E che cosa si aspettino da lui simili
personaggi. E se magari sappiano qualcosa che
noi ancora non sappiamo.
A questo proposito, vorrei aggiungere qualche
concreto elemento fattuale che dovrebbe caldamente
sconsigliare l'ascesa al Colle più alto di Massimo
D'Alema. Il presidente Ds si è salvato per prescrizione
in un processo relativo a un finanziamento illecito
di 20 milioni di lire ricevuto a metà degli
anni 80 da un imprenditore barese colluso con
la Sacra Corona Unita, il re delle cliniche
pugliesi Francesco Cavallari, che poi ha patteggiato
una condanna per concorso esterno in associazione
mafiosa (perché, fra l'altro, ingaggiava esponenti
delle cosche baresi nelle sue cliniche per far
pestare a sangue i sindacalisti della Cgil che
scioperavano contro le violazioni dello Statuto
dei lavoratori e rifiutavano di iscriversi a
un sindacato "giallo" allestito dallo stesso
imprenditore). D'Alema confessò di aver ricevuto
denaro in nero da quel soggetto al termine di
una cena nella di lui casa, senza registrarlo
fra i contributi elettorali come prevedeva (e
prevede) la legge. Insomma, confessò di aver
commesso un reato. Può il responsabile accertato
di un reato penale aspirare a diventare capo
dello Stato e, soprattutto, presidente del Consiglio
superiore della magistratura?
C'è poi il problema delle amicizie non proprio
raccomandabili che Massimo D'Alema ha intrecciato
nel corso della sua carriera politica. Un capo
dello Stato non solo non dev'essere ricattabile,
ma non deve neppure sembrarlo. Nella sua Puglia,
il nome di D'Alema è associato allo scandalo
della Missione Arcobaleno, che ha visto coinvolti
alcuni uomini a lui vicini indagati dal futuro
sindaco di Bari Michele Emiliano; e alla Banca
del Salento, poi Banca 121, gestita da suoi
amici con risultati disastrosi soprattutto per
i risparmiatori (centinaia di persone sul lastrico
per i famosi investimenti nei fondi "My Way"
e "Four You"). Quando è stato presidente del
Consiglio, D'Alema ha diretto i giochi della
più controversa delle privatizzazioni, quella
della Telecom, affidata a una congrega di finanzieri
senza blasone ma soprattutto senza soldi, che
acquistarono il colosso a debito, cioè con i
soldi delle banche, riempiendolo di buchi (che
oggi ammontano ormai a 53 miliardi di debiti).
L'operazione fece dire a Guido Rossi che Palazzo
Chigi somigliava a "una merchant bank dove non
si parla l'inglese". Anche perché la congrega
dei "capitani coraggiosi" approdati a Telecom
era formata dal ragionier Colaninno, dal dottor
Gnutti e dell'ingegner Consorte. Il secondo
e il terzo si sono poi ritrovati, insieme ad
altri vecchi amici di D'Alema, nella scalata
dell'Unipol alla Bnl, che i giudici di Milano
definiscono "associazione per delinquere" finalizzata
a una serie di gravi reati. Di quella scalata
D'Alema s'interessò attivamente: sia in pubblico
con dichiarazioni a sostegno di Consorte, in
difesa di Gnutti e anche di Ricucci e degli
altri "furbetti"; sia in privato, come risulta
dalle sue telefonate intercettate con Consorte
(diverse volte) e da un contatto telefonico
(poi abortito) addirittura con Fiorani. Intanto
il senatore suo sodale Nicola Latorre parlava
sia con Consorte sia con Ricucci. Seguiva la
pratica Unipol lo studio Zulli, da sempre associato
con Giulio Tremonti. Quelle telefonate, diversamente
da quelle di Piero Fassino subito pubblicate
dal "Giornale" berlusconiano, restano al momento
segrete. Ma, secondo le denunce degli stessi
Ds, Berlusconi sarebbe in possesso del "dischetto"
completo delle intercettazioni disposte dai
magistrati milanesi. In questo caso, noi non
sappiamo che cosa contengano quelle conversazioni,
ma Berlusconi sì. Quale uso ne viene o ne può
essere fatto, visto che il Giornale ha improvvisamente
interrotto la pubblicazione dei testi appena
finito con quelli di Fassino? Non sarebbe il
caso di renderne noto il contenuto, per dissipare
ogni sospetto di ricatti? Finchè ciò non avverrà,
intorno a Massimo D'Alema permarrà un fumus
oggettivamente ricattatorio. Che è totalmente
incompatibile con le sue aspirazioni per la
Presidenza della Repubblica.
Non è doveroso
che tutto avvenga alla luce del sole, poiché
è questo che distingue radicalmente la trattativa
dall'inciucio? E poiché tocca alla maggioranza
cominciare, non sarebbe giusto che il centro-sinistra
formuli una rosa di nomi, che comprenda oltre
a politici di partito (D'Alema e Marini) e a
politici di confine con la società civile (Amato)
anche personalità estranee ai partiti, come
la costituzionalista Lorenza Carlassare o il
giurista Franco Cordero?
Aggiungerei
all'elenco personalità super partes come Giovanni
Sartori, Gustavo Zagrebelski, Tullia Zevi e
Mario Monti.
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