(L'Espresso)
Fin troppo
facile citare Tomasi di Lampedusa. Ma non c'è niente
da fare: nella Sicilia del potere è sempre stagione
di gattopardi, con stili diversi e obiettivi identici:
cambiare tutto perché nulla cambi. Questo è anche il
capolavoro di Bernardo Provenzano, che con la sua cattura
ha trasmesso l'immagine di una mafia sconfitta garantendo
invece a Cosa nostra il passaporto per il futuro. Quale
sia il progetto dell'ultimo padrino lo spiega un volume
in uscita la prossima settimana dall'editore Fazi, "I
complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da
Corleone al Parlamento": una grande zona grigia che
fonde e confonde tutto, destra e sinistra, imprenditoria
e pubblica amministrazione, mafia e antimafia. Peter
Gomez, inviato de "L'espresso", e Lirio Abbate, cronista
dell'Ansa di Palermo, raccontano i protagonisti di questo
magma, che avanza sottoterra, senza eruzioni esplosive
che attraggano l'attenzione della cosìdetta società
civile. Cosidetta perché nei piani del boss c'è anche
l'infiltrazione nell'antimafia militante, la ricerca
di collusioni nei partiti di sinistra, l'ossessione
per il mimetismo che renda Cosa nostra una Cosa nuova,
capace di restare protagonista senza mai apparire. Il
laboratorio di questa rivoluzione invisibile è Villabate:
una città dove gli emissari di Provenzano parlavano
con esponenti di primo piano della politica nazionale.
Il personaggio al centro della famiglia di Villabate,
Nino Mandalà, ha ricevuto un altro ordine di cattura
la scorsa settimana. Ecco uno stralcio da "I complici".
Enrico
tu sai da dove vengo e che cosa ero con tuo padre. Io
sono mafioso come tuo padre, perché con tuo padre me
ne andavo a cercare i voti vicino a Villalba da Turiddu
Malta che era il capomafia di Vallelunga. Ora (lui)
non c'è (più), ma lo posso sempre dire io che tuo padre
era mafioso.».
Una frase del genere, anche loro che per lavoro erano
abituati ad ascoltare ogni giorno ore e ore d'intercettazioni,
non l'avevano mai sentita. Sembravano le parole di un
film. Dentro c'era tutto: la minaccia - «io sono mafioso»
- il ricatto - «lo posso sempre dire io che tuo padre
era mafioso» - i riferimenti ai capi storici di Cosa
Nostra - Turiddu Malta, capofamiglia liberato dal carcere
nel '43 dagli americani - e la politica. Sì, la politica.
Quella con la P maiuscola, perché Enrico era il figlio
del senatore fanfaniano Giuseppe La Loggia: era Enrico
La Loggia, dal 1996 al 2001 capogruppo di Forza Italia
al Senato e poi ministro degli Affari Regionali nel
governo Berlusconi. Ma a pronunciare quelle parole non
era stato un attore: a scandirle con voce forte e chiara
era stato, appena un mese prima di finire in manette,
l'avvocato Nino Mandalà. È il 4 maggio 1998. Quel giorno
il boss di Villabate sale, verso le 11 del mattino,
sulla Mercedes turbodiesel di un uomo d'onore grande
e grosso, dalla folta barba scura. È l'auto di Simone
Castello, l'imprenditore che, fin dagli anni Ottanta,
per conto di Provenzano recapita i suoi pizzini in tutta
la Sicilia. I carabinieri l'hanno imbottita di microspie
perché sanno che parlare con Castello significa parlare
direttamente con l'ultimo Padrino. Mandalà è su di giri.
Le elezioni amministrative sono alle porte, nel direttivo
provinciale di Forza Italia di cui fa parte c'è fermento,
le riunioni per preparare la lista dei candidati si
succedono alle riunioni. Gaspare Giudice lo ha consultato
per trovare un uomo da presentare per la corsa al consiglio
provinciale a Misilmeri, un paesino a pochi chilometri
da Villabate. Lui gli ha fornito un nome: all'ultimo
momento però l'accordo è saltato, perché Renato Schifani,
neoeletto senatore nel collegio di Corleone, «ha preteso,
giustamente, che il candidato di Misilmeri alla provincia
fosse suo, visto che Gaspare Giudice ne aveva già quattro»,
spiega Nino a Simone. (...)
La sua prima piccola rivincita, Nino, se l'è comunque
già presa. Il candidato proposto da Schifani si è presentato
in paese ma è stato respinto in malo modo. Ridendo,
Mandalà racconta di avergli detto a brutto muso: «Caro
mio io non do indicazioni a nessuno, non mi carico nessuno,
Misilmeri non è Villabate, è inutile che vieni da me.
Di voti qui non ce n'è per nessuno.». La dura reazione
del capomafia ha preoccupato i vertici di Forza Italia,
tanto che Gaspare Giudice lo ha immediatamente chiamato:
«Mi ha telefonato dicendo che stamattina a casa di Enrico
La Loggia c'è stata una riunione. (C'erano) La Loggia,
Schifani, Giovanni Mercadante (l'allora capogruppo di
Forza Italia in Comune a Palermo, arrestato per mafia
nel 2006) e Dore Misuraca, l'assessore regionale agli
Enti Locali. (Giudice mi ha raccontato che) Schifani
disse a La Loggia: «Senti Enrico, dovresti telefonare
a Nino Mandalà, perché ha detto che a Villabate Gaspare
Giudice non ci deve mettere più piede. e quindi c'è
la possibilità di recuperare Mandalà, telefonagli.».
Il mafioso è quasi divertito. Tanta confusione intorno
al suo nome in fondo lo fa sentire importante. Alzare
la voce con i politici è sempre un sistema che funziona.
E, secondo lui, anche Renato Schifani ne sa qualcosa.
Dice Mandalà: «Simone, hai presente che Schifani, attraverso
questo (il candidato di Misilmeri). aveva chiesto di
avere un incontro con me, se potevo riceverlo. E io
gli ho detto no, gli ho detto che ho da fare e che non
ho tempo da perdere con lui. Quindi, quando ha capito
che lui con me non poteva fare niente, si è rivolto
al suo capo Enrico La Loggia che, secondo lui, mi dovrebbe
telefonare. Ma vedrai che lui non mi telefonerà. Mi
può telefonare che io, una volta, l'ho fatto piangere?».
Mandalà (...) torna con la mente al 1995, l'anno in
cui suo figlio Nicola era stato arrestato per la prima
volta. Accusa La Loggia di averlo lasciato solo, di
averlo «completamente abbandonato», forse nel timore
che qualcuno scoprisse un segreto a quel punto divenuto
inconfessabile: lui e Nino Mandalà non solo si conoscevano
fin da bambini, ma per anni erano anche stati soci,
avevano lavorato fianco a fianco in un'agenzia di brokeraggio
assicurativo (...). Il portaordini di Provenzano cerca
d'interromperlo, sembra voler tentare di calmarlo: «Va
bene, magari è il presidente (dei senatori di Forza
Italia e non si può esporre).». «D'accordo, però, dico,
in una situazione come questa. Dio mio mandami un messaggio.
(Poteva farlo attraverso) 'sto cornuto di Schifani che
(allora) non era (ancora senatore), (ma faceva) l'esperto
(il consulente in materie urbanistiche) qua al Comune
di Villabate a 54 milioni (di lire) l'anno. Me lo aveva
mandato (proprio) il signor La Loggia».
«Poi, un giorno, dopo la scarcerazione di Nicola, (io
e La Loggia) ci siamo incontrati a un congresso di Forza
Italia. Lui mi dice: "Nino, io sai per questo incidente
di tuo figlio.". Gli ho detto: "Senti una cosa, tu mi
devi fare la cortesia, pezzo di merda che sei, di non
permetterti più di rivolgermi la parola". Lui si è messo
a piangere, si è messo a piangere, ma non si è messo
a piangere perché era mortificato, si è messo a piangere
per la paura. Siccome gli ho detto"ora lo racconto che
tuo padre veniva a raccogliere con me daTuriddu Malta",
e l'ho fatto proprio per farlo spaventare, per impaurirlo,
per fargli male, 'sto cretino, minchia, ha pensato che
io andassi veramente a fare una cosa del genere. Vedi
quanto è cornuto e senza onore...».
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