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Intoccabili
Perché la mafia è al
potere
Saverio
Lodato e Marco Travaglio
BUR - Biblioteca Universale Rizzoli
C'era una volta la Procura
di Palermo. C'erano una volta i Pool di Falcone e Borsellino
e poi di Caselli, che scandagliavano i rapporti mafia-politica
e puntavanno alle verità indicibili a caccia
delle "menti raffinatissime" che garantiscono
lunga vita a Cosa Nostra. Oggi il governo dice che "con
la mafia bisogna convivere" e la mafia convive
con lo Stato. Questo libro, perforando l'inossidabilità
di un'informazione spesso disattenta o menzognera, ci
aiuta a non dimenticare quello che è accaduto
ed è stato accertato dagli anni Ottanta ad oggi.
Dal maxiprocesso ai casi Andreotti Dell'Utri e Mori,
alle ultime controverse inchieste su Totò Cuffaro.
Sino alla battaglia finale contro Caselli, vittima di
una cultura della illegalità che ha fiaccato
speranze e ha creato nuove complicità
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Mafia e Stato,
dalla convivenza all'alleanza
di Paolo Sylos Labini
Chi legge questo libro, alla fine, non può non porsi una
domanda: come siamo potuti cadere così in basso? Possibile
che la guerra alla mafia, che soltanto dieci anni fa pareva
non lontana dal successo, sia finita così male, addirittura
con la mafia al potere? E ancora: possibile che il "popolo
di geni" di cui vaneggiava Mussolini continui a credere,
dopo dieci anni, alle atroci menzogne di un Berlusconi
e della sua corte dei miracoli? Verrebbe da concludere
che siamo un popolo di imbecilli e di malfattori, altro
che geni. Ma, prima di abbandonarci all'angoscia e alla
disperazione, proviamo a ragionare.
Al fondo c'è un micidiale, radicale cinismo che domina
tutto, un'assuefazione al malaffare che diventa ambiente
e costringe le persone civili e oneste - ce ne sono ancora,
e tante - a una ammutolita paralisi. Perciò è importante
che escano e circolino libri come questo. Perché sono
una delle poche armi che ci rimangono per trovare o rinfocolare
il coraggio di combattere. È l'informazione particolareggiata
dei fatti che dà coraggio. Solo la verità può rendere
liberi quanti oggi non vogliono essere servi, ma finiscono
per esserlo inconsapevolmente, col torpore rassegnato
che li paralizza. Una condizione che io spiego non solo
col nostro machiavellico cinismo, ma anche con qualcosa
di ancora peggiore: una grave carenza di autostima, come
direbbe Adam Smith; un diffuso autodisprezzo, come dico
io. Spesso, dopo infinite discussioni su questi temi,
mi capita di sentire da persone di "destra" e di "sinistra"
la terribile battuta: "Ma che diavolo pretendi, in fondo
siamo italiani!". E ogni volta mi domando perché ci siamo
ridotti in questo stato miserabile, in questo abisso di
abiezione che, sotto certi aspetti, è peggiore di quello
in cui ci aveva cacciati Mussolini. Certo, la mancanza
di senso dello Stato, che deriva dalla mancanza di uno
Stato. Certo, la superficialità della cultura popolare
e la grave debolezza della borghesia intellettuale ed
economica spiegano il carattere volubile dell'opinione
pubblica e la facilità con cui viene sistematicamente
ingannata per mezzo del micidiale potere persuasivo del
monopolio televisivo. Certo, i guasti della Controriforma
senza Riforma. Certo, i sottoprodotti della morale cattolica,
che privilegia la misericordia piuttosto che la giustizia.
Non tanto perché sia migliore il protestantesimo rispetto
al cattolicesimo, ma perché da noi la Chiesa ha avuto
il potere temporale, e dunque ha usato la religione come
instrumentum regni. Mi ha sempre colpito il racconto di
Nassau Senior, un economista mediocre, famoso più che
altro per gli attacchi che gli riservò Karl Marx. A metà
dell'Ottocento la sua passione per i viaggi e per la conoscenza
dei potenti d'Europa lo portò a Roma, dove conobbe il
papa e dipinse un quadro raccapricciante dello Stato pontificio.
Senior racconta di un confessore che, a una donna con
un figlio di idee liberali, impose di denunciarlo con
tutti i particolari in cambio dell'assoluzione. La donna
ci pensò qualche giorno, poi denunciò il figlio, che fu
arrestato e torturato. Come meravigliarci, allora, se
l'Unità d'Italia non s'è mai davvero compiuta, se il bene
comune non è mai stato considerato come un obiettivo di
tutti, a dispetto del nostro nazionalismo di cartapesta?
L'uomo è un animale sociale e aspira ad avere l'orgoglio
di appartenere a una comunità: la famiglia, il gruppo,
la patria. Ora, la Patria in Italia è venuta tardi e in
condizioni infelici. Ancora un secolo fa l'analfabetismo
era gigantesco. Quando all'inizio del Novecento Salvemini
si batteva per il suffragio universale, le persone che
avevano diritto al voto erano il 6-7% della popolazione.
Con una legge di Giolitti salirono al 20%, perché per
votare bisognava saper leggere e scrivere e avere un piccolo
peculio; il voto, poi, era concesso solo agli uomini.
Il pericolo del fascismo lo capirono in pochi, all'inizio.
Lo stesso Benedetto Croce fu per anni filofascista e,
da senatore, votò a favore di Mussolini, anche dopo il
delitto Matteotti. Solo in seguito divenne uno dei padri
dell'antifascismo. Anche nell'esigua cultura liberale
dell'epoca, quelli che denunciarono il regime fin dall'inizio
non furono molti: Piero Gobetti, Giustino Fortunato e
pochi altri. Retorica a parte, il cosiddetto impero e
poi la seconda guerra mondiale, con tutti quei richiami
all'antica Roma, non potevano certo far crescere l'autostima
del popolo italiano e quindi l'amor di Patria. E infatti
l'ubriacatura passò in fretta, con la campagna di Grecia,
che svelò a tutti la nostra assoluta impreparazione. L'ostilità
al regime divenne diffusa e fortissima e poi la sconfitta
apparve ignominiosa proprio perché gli Italiani si resero
conto dell'irresponsabilità del capo, che si autoproclamava
infallibile ma che aveva gettato l'Italia in quelle condizioni
nella fornace di una guerra terribile. Penso che la morte
della Patria - speriamo temporanea - risalga a quella
tragedia.
Attenzione: anche la mafia è una comunità, con le sue
regole, il suo codice, il suo diritto, le sue istituzioni.
Per coloro che ne fanno parte, pure se si definiscono
"uomini d'onore", è più difficile provare orgoglio. Ma
è più facile toccarne con mano i benefici: ricchezze,
potenza, protezione. La studio da quarant'anni, la mafia:
da quando Giangiacomo Feltrinelli, nel 1958, mi propose
di organizzare un gruppo di ricercatori - io ero professore
a Catania - per condurre un'indagine ad ampio raggio in
Sicilia, che alla fine diventò un corposo volume di 1500
pagine. Nel giugno 1965, dopo Catania, fui ascoltato dalla
commissione parlamentare Antimafia, presieduta dal senatore
Donato Pafundi (la mia deposizione fu poi pubblicata nel
1970 da Laterza in Problemi dello sviluppo economico).
Nel 1974, come si ricorda in questo libro, mi dimisi dal
comitato tecnicoscientifico del ministero del Bilancio,
di cui facevo parte da circa un decennio, quando il titolare
di quel dicastero, Giulio Andreotti, nominò sottosegretario
Salvo Lima. Siccome Lima compariva più volte nelle relazioni
dell'Antimafia ed era stato oggetto di ben quattro richieste
di autorizzazione a procedere della magistratura, feci
presente la cosa al mio amico Nino Andreatta, perché ne
parlasse con Aldo Moro, presidente del Consiglio. Qualche
giorno dopo Andreatta tornò da me con la coda fra le gambe:
Moro gli aveva confessato la sua impotenza, perché - gli
aveva detto - "Lima è troppo forte e troppo pericoloso".
Allora affrontai l'argomento direttamente con Andreotti,
dicendogli: "O lei revoca la nomina di Lima, che scredita
l'immagine del ministero, o mi dimetto". Non mi lasciò
neppure finire: mi interruppe e mi liquidò dicendo che
ne avremmo parlato un'altra volta. A quel punto resi ufficiali
le dimissioni. La mia lettera fu pubblicata dal "Corriere
della Sera" e da vari altri giornali, e la cosa fece un
certo scalpore per alcune settimane. Ci furono anche delle
vibrate proteste dei giovani Dc. Poi calò l'oblio. Di
quella faccenda si tornò a parlare quando Gian Carlo Caselli
e i suoi pm mi chiamarono a testimoniare al processo Andreotti:
era chiaro, da quell'episodio, che Andreotti - e non solo
lui - sapeva benissimo chi era Lima. Lo sapevo persino
io... La cosa che mi colpì fu che il mio gesto fu visto
come prova di coraggio non comune. È deprimente che, in
Italia, un gesto di normale decenza venga visto così.
Dà la misura di come ci siamo ridotti. Tutti mi domandavano:
ma come ha fatto, dove ha trovato la forza? Io rispondevo:
ma quale forza, ma quale coraggio? C'era una persona che
non ritenevo perbene, non volevo lavorarci insieme, e
me ne andai. Tutto qui. È stato facile.
Nella deposizione prima ricordata ho cercato di chiarire
i miei punti di vista sulle origini della mafia e sulle
sue caratteristiche attuali. Che cosa sia oggi questo
libro di Lodato e Travaglio lo spiega benissimo. Mafia
vuol dire appalti, licenze edilizie, aree fabbricabili,
sistemi di irrigazione, controllo dei mercati ortofrutticoli
e sull'acqua, cioè sulla vita dei siciliani, e poi commercio
di droga e altri affari sporchi, ma anche "puliti" come
il Ponte sullo Stretto e la grande mangiatoia della sanità
pubblica. Ma, soprattutto, mafia vuol dire agganci con
la politica, con l'economia, con pezzi delle istituzioni
che non saprei nemmeno se chiamare "deviate" oppure no
(in questo paese i deviati rischiano di essere quelli
che la mafia la combattono davvero). Sono queste le sue
assicurazioni sulla vita, le ragioni della sopravvivenza
di un'organizzazione tutto sommato arcaica in pieno terzo
millennio. Il libro spiega anche com'è cambiata l'antimafia,
o forse come non è cambiata, essendo sempre stata affidata
a pochi "volontari", isolati e forse anche un po' matti.
Cioè a una élite di poliziotti, carabinieri, magistrati,
giornalisti, intellettuali e politici che hanno maturato,
non si sa come, quel senso dello Stato e dell'autostima
che non è mai diventato patrimonio di tutti.
La cultura delle regole, il senso della legalità, l'amore
per la trasparenza sono da sempre minoritari, in Italia.
Per una serie infinita di fattori storici, da noi non
s'è mai affermata una cultura liberale e democratica di
massa: i liberalsocialisti come i liberalconservatori
sono sempre stati quattro gatti, guardati con un misto
di sospetto e di curiosità dai ceti dominanti. Il che
spiega perché l'autoritarismo, come la cultura mafiosa,
hanno sempre trovato terreno fertile. E spiega anche perché
oggi il regime berlusconiano, terribile sintesi della
cultura autoritaria e di quella mafiosa, incontra resistenze
così scarse.
Hanno ragione gli autori del libro quando, a proposito
della mafia, parlano di "cosiddetto Antistato". Perché
troppo spesso i confini fra Stato e Antistato sono confusi,
invisibili, vischiosi, come quelli fra legalità e illegalità.
Anche la mafia è stata, nel corso dell'ultimo secolo,
un instrumentum regni da imbrigliare e utilizzare per
scopi di potere. La sentenza Andreotti, che qui viene
finalmente raccontata per quello che dice davvero, dopo
anni di bugie infami, è illuminante. La politica combatte
Cosa Nostra quando alza troppo la testa, quando pretende
di comandare anziché collaborare, poi torna al tavolo
della trattativa per stabilire nuovi patti e nuovi equilibri.
L'uomo politico che chiede favori alla mafia non può poi
agire autonomamente e tanto meno prendere misure contro
la mafia, credendosi forte del suo potere politico. Se
lo fa, viene punito. Mutando quel che va mutato, questo
vale anche per chi entra in rapporti di dare e avere con
Berlusconi. E non mancano le tragedie greche. Mattarella
aveva due figli che vollero cambiare linee di condotta;
uno divenne presidente della Regione siciliana e decise
di ostacolare la distribuzione degli appalti alla mafia.
Fu assassinato. Chi è visto come ostacolo all'eterna trattativa
fra politici e mafiosi - cioè le élites più avanzate della
politica, della cultura e della magistratura - viene isolato
come un fastidioso ingombro e tolto di mezzo. Col tritolo
o con le campagne mediatiche di delegittimazione. Oggi,
poi, la politica intesa come mediazione fra Stato legale
e Stato illegale ha fatto un altro salto di qualità: il
ministro Lunardi, quando dice che "con la mafia bisogna
convivere", pecca di minimalismo. Fino ad Andreotti, lo
Stato conviveva con la mafia. Oggi, con i Berlusconi e
i Dell'Utri al potere, dei quali anche questo libro dimostra
inoppugnabilmente i legami con la mafia, è peggio di prima,
peggio di sempre: dalla convivenza siamo passati all'alleanza.
Una vera lotta alla mafia si può fare soltanto con un
governo che non abbia rapporti con la mafia. Un governo
che non sia come quello di oggi, e come molti di ieri.
Certo, quando sarà passato il lungo incubo che ha spazzato
via i due o tre anni di successi seguiti allo choc delle
stragi del 1992-93, sarà difficile ricominciare. Perché
questo lungo incubo, che si chiama Berlusconi e dura ormai
da dieci anni anche per le furbizie di un'opposizione
debole se non addirittura complice, ha vieppiù abbassato
la nostra già scarsa autostima. In una spirale perversa
che non sembra avere mai fine, ha creato ulteriore assuefazione.
E ha fiaccato le speranze e gli entusiasmi che sarebbero
necessari per riprendere la lotta. L'antimafia è affidata
ai "pochi pazzi malinconici" di cui parlava Salvemini.
Io mi sento un pazzo triste ma arrabbiato: e forse quel
che mi salva è proprio la rabbia.
Non è questione di ottimismo o di pessimismo. Occorre
ritrovare il realismo che nasce dalla conoscenza della
nostra storia, con le sue luci e le sue ombre. Non bisogna
mai dimenticare né le une né le altre. Per me, poi, c'è
anche una lunga esperienza personale, che, con mia meraviglia,
ebbe una conclusione positiva. Ricordo quando mi scontrai
con Giacomo Mancini, che nel Psi era una potenza e in
Calabria un ras incontrastato. Pretendeva che la nuova
università di Cosenza sorgesse in una zona che gli stava
a cuore per certi interessi suoi o dei suoi amici. Andreatta
e io, in quanto membri del comitato che doveva organizzare
la nuova università, contrastammo le sue manovre e riuscimmo
a farla nascere in tutt'altro luogo, molto più adatto
al suo sviluppo. Mancini pretendeva pure che dovessimo
dare un incarico d'insegnamento a un suo protetto. Tutto
ciò al prezzo di una denuncia e di un'incriminazione da
parte di un giudice legato a Mancini, che mi tenne sotto
inchiesta per anni, privandomi addirittura del passaporto
(per due lustri fui costretto, ogni volta che andavo all'estero,
a recarmi alla Farnesina e chiedere un permesso speciale
per l'espatrio). Poi, quando scemò l'influenza di Mancini,
ebbero finalmente il coraggio di assolvermi. Con formula
non piena, ma pienissima: "il fatto non sussiste". Erano
tutte calunnie. Oggi l'Università della Calabria funziona
bene, con ottime attrezzature e 26.000 studenti. Mi hanno
anche invitato, come uno dei padri fondatori. È una storia
a lieto fine: mi è costata molte pene, ma è stato giusto
patirle. L'esperienza è incoraggiante, perché dimostra
che chi intraprende una battaglia civile non è condannato
al fallimento: se ha tenacia, può vincere.
Intendiamoci. Dinanzi al quadro che emerge dal libro,
la tentazione sarebbe quella dell'angoscia e della disperazione.
La prima è sacrosanta, e anche salutare. La seconda no,
guai a disperare: a mente fredda, sarebbe un errore. Scriveva
Calamandrei nel suo diario il 23 novembre 1939: "la tragedia
dell'Italia è proprio questa generale putrefazione morale,
questa indifferenza, questa vigliaccheria". Ma poi venne
la Resistenza: non tutti furono eroi veri, molti furono
eroi per caso o per necessità. Ma il nucleo forte trascinò
tanti, contribuì a liberarci dal nazifascismo e - con
uno di quei miracoli che a volte fanno le minoranze agguerrite
- ci regalò la Costituzione, che oggi è presa a colpi
di piccone dalla banda Berlusconi. Ecco, lo stesso direi
oggi per la lotta alla mafia: in alcune fasi storiche
- quella di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino,
e poi quella di Caselli e dei suoi uomini - le minoranze
che si sentono Stato e Patria hanno trascinato la maggioranza
verso esiti straordinari, oggi in via di smantellamento.
Questo libro, perforando il sudario di un'informazione
serva e di una disinformazione organizzata, ci aiuta a
conoscere tali risultati. E dunque a non dimenticarli,
anche se la luminosa stagione che li ha determinati è
finita da un pezzo. Quanto sia stata importante lo dimostrano
i continui tentativi di deturparne il ricordo: da parte
sia di chi ne parla male, sia di sepolcri imbiancati che
ne parlano bene. Intanto anche nella magistratura, in
sintonia con le esigenze di politici senza scrupoli, si
manifestano le viltà, i servilismi, il "tirare a campare",
i compromessi meschini. Ma finirà anche questa stagione
buia. L'importante è sapere che contro la mafia e i suoi
protettori nelle istituzioni e nei consigli di amministrazione
si possono fare grandi cose. Si sono fatte grandi cose.
Se la prima e la seconda ondata dell'attacco, come quelle
dei fanti in certe battaglie della prima guerra mondiale,
sono state decimate e respinte, la terza potrà avere successi
più duraturi. Basta aver chiaro fin da subito che anche
quella sarà una battaglia di minoranza, e anche per quella
bisognerà mettere in conto la solitudine.
Intanto, per preparare la battaglia, bisogna conoscere.
È fondamentale l'informazione. L'attacco va portato con
fatti inoppugnabili e documentati. Come quelli raccontati
in questo libro, che ci aiuta a capire da chi e come siamo
stati e siamo governati, ma anche come si è riusciti a
sconfiggere il pool di Caselli, come già quello di Borrelli
a Milano. E, soprattutto, perché. Ci sono verità troppo
forti perché il Potere le affidi a cuor leggero a magistrati
"ingestibili", che intendono applicare semplicemente la
legge in maniera uguale per tutti. Quelle verità, quando
sono ormai scritte in sentenze definitive - come quella
su Andreotti - devono essere per forza cancellate e oscurate,
perché non giungano sotto gli occhi dell'opinione pubblica.
Per quelle, invece, ancora giudiziariamente da accertare
(dalle varie "trattative" fra Stato e mafia al capitolo
dei "mandanti occulti" delle stragi), si seguono i canoni
della "guerra preventiva": si tolgono di mezzo i magistrati
che potrebbero, presto o tardi, scoperchiarle. La mafia,
come ogni forma di illegalità, campa e ingrassa sull'ignoranza.
E nel nostro regime di oggi l'ignoranza viene diffusa
a reti unificate, facendo leva sui nostri due peggiori
vizi nazionali, i sottoprodotti della nostra scarsissima
autostima che spesso copriamo col patriottismo ipocrita:
la cupidigia di servilismo e la cupidigia di abiezione.
Chi vuole conoscere, o perlomeno intravedere, le verità
indicibili che oggi costituiscono la vera posta in gioco
non ha che da leggere questo libro. Più sarà diffusa la
conoscenza, più sarà difficile l'insabbiamento. |
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