Postfazione di Beppe Grillo
Quando lavoravo alla
Rai, ogni sabato sera, prima di andare in onda, mi chiamava
il direttore generale Biagio Agnes: «Con la stima che
ci lega, signor Grillo, si ricordi che lei si rivolge
alle famiglie». Io regolarmente rispondevo: «Non c'è
nessuna stima, signor Agnes, fra me e la sua famiglia
... ». Poi, subito dopo la sigla, avvertivo il pubblico:
«Pochi minuti fa mi ha telefonato il direttore generale
e ha cercato di corrompermi». La censura della Rai democristiana
non era brutale e intimidatoria, violenta e ottusa come
quella di oggi. Non cercava di annientarti, di rovinarti
con le denunce. Era più bonaria, famigliare, melliflua.
Si presentava col volto del vecchio zio burbero benefico,
che ti dà buoni consigli per il tuo bene. E tu, con
un po' di astuzia, la potevi aggirare. Per esempio:
era vietato parlare di P2, allora io una sera andai
in scena con una lavagna e fornii una complicata ma
persuasiva dimostrazione matematica dell'esistenza di
Pietro Longo. Alla fine usciva il suo faccione in un
triangolo, il simbolo massonico. Successe un casino.
Pippo Baudo si arrabattava poi a rimediare con le sue
arti democristiane. Anche a lui ricordavo la differenza
fra la mia famiglia e le «famiglie» delle sue parti,
Catania e dintorni. Ecco, quella censura metteva alla
prova la creatività del censurato, quasi lo sfidava
ad aggirare l'ostacolo.
Poi arrivò Craxi e cambiò tutto. Mi tennero lontano
dalla Rai per diversi anni, dal 1986 al 1993, per due
battute che anticipavano Tangentopoli. In una, ammiccando
allo spot che facevo per uno yogurt bussando alle porte
della gente per offrire un assaggio, raccontai di aver
bussato a casa Craxi. Bettino apriva e faceva per richiudere
l'uscio: «No, grazie, non mangio yogurt». E io: «Ma
non sono qui per quello. E' che mi hanno fregato il
motorino, e pensavo che lei ne sapesse qualcosa». Nell'altra,
parlavo della mitica missione in Cina del premier socialista,
che s'era portato dietro un codazzo di parenti, famigli,
amici, portaborse, damazze, contesse, fidanzate. Giunto
a Pechino, l'avevano avvertito: «Sa, presidente, qui
siamo tutti socialisti». E lui aveva risposto: «Ma allora
a chi rubate?». Poi, nel '92-'93, li portarono tutti
in galera. Nel '93, dopo lunga quarantena, si rifece
viva con me la Rai dei «professori»: tutte brave persone,
che non capivano un tubo di televisione. Feci due serate
in diretta, poi cominciarono a capire qualcosa di televisione
e decisero che bastava così. Nel '94 mi richiamò la
Moratti. Stessa manfrina di sempre: «Grillo, lei potrà
fare e dire quello che le pare. Ha carta bianca». Conoscendo
i miei polli, li misi con le spalle al muro: «Guardate,
io vi mando una cassetta del mio spettacolo, e voi potete
tagliare qualsiasi cosa, quello che volete». Risposero:
«Ma noi non vogliamo tagliare niente». Tagliarono tutto,
nel senso che la cassetta non andò mai in onda. Non
era quel che dicevo, il problema. Il problema ero io,
quel che rappresentavo con le mie battute e le mie denunce
sulle case automobilistiche, la ricerca fasulla, i consumi,
le pubblicità, i Nobel comprati, il petrolio e l'idrogeno,
gli spazzolini inquinanti. Perché in Italia puoi dire
peste e corna del presidente della Repubblica, ma se
tocchi un formaggino ti fulminano. Dì quel che vuoi,
ma non sfiorare i fatturati.
E' così anche nell'Italia berlusconiana. Il Cavaliere
mica s'incazza se si fa satira sociale, sulle pensioni,
sulle riforme, sulle ville, sulla statura, sulla pelata.
S'incazza se parli dei suoi processi e del suo monopolio,
che poi sono le vere ragioni per cui fa politica: in
una parola, i guadagni di Mediaset. Quello è il tabù.
Per questo sono saltati Biagi, Santoro, Luttazzi, la
Guzzanti, Fini, Rossi e tutti gli altri. Perché lo toccavano
negli affetti più cari: i fatturati. E lui, quando gli
toccano i fatturati, va fuori di testa. Parla di «uso
criminoso della televisione», lui che la usa criminosamente
da vent'anni. E così trasforma in eroi e in martiri
dei professionisti che si limitavano a fare onestamente
il loro mestiere di giornalisti o di artisti. Niente
di rivoluzionario: solo il loro mestiere, anche se è
vero che in Italia solo i veri rivoluzionari fanno ancora
il loro mestiere. Ecco, lo stile è lo stesso di Craxi.
Anche se Craxi non possedeva tutte le tv d'Italia: gli
sarebbe piaciuto fare quel che fa oggi Berlusconi, ma
non poteva. Aveva il 13% dei voti o giù di lì. All'inizio
credevo anch'io che fosse uno statista. Poi capii che
era un ometto. Me ne accorsi quando, con mio grande
stupore, lo sentii - lui, il presidente del Consiglio
- pronunciare il nome di un comico genovese: il mio.
«Chi si crede di essere Grillo?», disse. Solo un ometto
poteva scomodarsi per me, abbassarsi a tanto. Fosse
stato intelligente, avrebbe detto: «C'è un birichino
di Genova che mi prende in giro, ma io mi diverto moltissimo».
E mi avrebbe ucciso per sempre. Rovinato. Invece fece
di me un eroe, un martire. Da quel giorno non ebbi più
fans, ma parenti. Fratelli. I grandi personaggi, anche
nel male, ti fanno i complimenti in pubblico e poi te
lo mettono in quel posto in privato, a tempo debito.
A freddo. Sono i mediocri, gli ometti che cadono nella
trappola delle epurazioni, delle censure sfacciate e
brutali, addirittura preannunciate dalla Bulgaria. Sono
i poveracci, che si sentono deboli e insicuri. I «grandi
comunicatori» che, alla terza volta che vanno in televisione,
fanno scappare la gente perché non ne può più. Lasciamoli
fare, si stanno autoeliminando da soli (dopodiché bisognerà
occuparsi dello smaltimento delle scorie che lasceranno
... ).
E noi, intanto? Protestiamo, certo, contro il regime
mediatico. Cerchiamo di perforarlo con le notizie che
nessuno dà, e che sono il miglior antidoto. Ma facciamo
pure tesoro della censura per sviluppare la creatività,
aguzzare l'ingegno, imparare nuovi sistemi per aggirarla.
Certo, bisogna rinunciare a qualcosa per poter dire
ancora quel che si vuol dire. Certo, ora che la censura
s'è fatta più brutale e scientifica, aggirarla è più
difficile di prima. Anche perché la censura riesce a
occultare pure la censura stessa. Ed è difficile far
capire alla gente che, in questa overdose di informazione,
nessuno ci informa davvero. Era molto più facile nella
Russia di Brezney, quando c'era solo la «Pravda» e infatti
il giornale più letto era il «Washington Post»: tutti
sapevano di vivere nel regime della menzogna, e tutti
andavano a cercarsi le notizie vere. Oggi siamo pieni
di «Pravde» e le scambiamo per tanti «Washington Post».
Ci manca l'informazione, ma non lo sappiamo. Per questo,
nel prossimo spettacolo, ho deciso di fare politica
anch'io. Senza candidarmi. Senza dare nell'occhio. Di
nascosto. L'ho fatto per tanti anni nei teatri. Ora
voglio abbinare i teatri e la rete, cioè Internet. Per
fare politica senza intermediari, senza politici: quelli
non servono più, sono obsoleti, superflui, cadaveri
ambulanti. Non rappresentano più nessuno, nemmeno se
stessi. Lancio un movimento politico che, tanto per
cominciare, punta a smuovere un milione di persone.
A tirar fuori il furore che c'è il loro. Lo chiameremo
"A furor di popolo". Voglio un po' vedere come potranno
ignorarlo. E, soprattutto, come faranno a censurarlo.
Beppe Grillo
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