Molti ancora mi chiedono come sia andata
a finire la storia del "buffone" a Berlusconi e del processo
che ne è scaturito. Rispondo che non è ancora finita,
visto che - sul piano giudiziario - dovrà pronunciarsi
la corte di Cassazione, alla quale ho fatto ricorso, mentre
- sul piano politico - le ragioni di quella mia contestazione
sono più attuali che mai. E animano l'impegno civile di
ogni giorno: mio, come di tanti altri "estremisti".
Per un provvisorio riassunto della storia, ecco la versione
integrale di un articolo pubblicato a giugno 2005 da Micromega.
Il cavalier Buffone e il sorvegliato
speciale
La storia - nelle parole del protagonista
- di cosa possa capitare a un cittadino che osi chiamare
Buffone il premier in fuga dai processi, e della querela
che ne è seguita. "Se l'ultima Salva-Delinquenti andrà
in porto potrei essere l'unico condannato per il processo
Sme, per reato connesso. Son soddisfazioni".
Il est dangereux d'avoir raison
quand les autorités constituées ont tort.
Voltaire
Buffone s.m. 1. Nell'antichità, ma
specialmente nel Medioevo e nel Rinascimento, uomo (assai
più raramente donna) per lo più fisicamente deforme o
nano, che aveva il compito di rallegrare con i suoi lazzi
i signori, di cui era spesso anche il consigliere; i buffoni
di corte. 2. Estensivamente:a. Chi si comporta e parla
in modo da far ridere alle sue spalle: era il buffone
della compagnia. b. Chi scherza volentieri intorno a cose
serie, o dice e fa seriamente cose ridicole: non è il
momento di fare il buffone. c. Chi manca alla parola quasi
per scherzo, o procede con incostanza e leggerezza non
degne di persona seria: non gli dar retta, è un buffone;
frequente come titolo d'ingiuria: sta' zitto, buffone!
Diminutivo buffoncello; peggiorativo buffonaccio. (Vocabolario
della lingua italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana,
fondata da Giovanni Treccani, Roma 1986)
Lunedì 5 maggio 2003, in un corridoio di
tribunale trasformato in palcoscenico della farsa "Vittima
della Malagiustizia", un cittadino italiano contesta la
pretesa di impunità del signor Berlusconi con queste parole:
"Fatti processare, buffone! Rispetta la legge! Rispetta
la Costituzione! Rispetta la democrazia! Rispetta la dignità
degli italiani! O farai la fine di Ceaucescu o di Don
Rodrigo!". Quel cittadino sono io. Ecco un riassunto di
quel che è accaduto dopo.
Il presidente del Consiglio in carica, visibilmente
irritato, punta il dito e ordina la mia immediata identificazione;
con ritrovata fiducia nella Giustizia, poi mi querela
per "ingiuria aggravata".
La notizia gira il mondo: non accade spesso che un capo
di governo, o presunto tale, denunci un cittadino che
lo invita a rispettare la legge.
E gira anche l'Italia, ogni tanto la macchina dei media,
per quanto oliata, si fa cogliere di sorpresa. Il Tg3
trasmette un servizio, come il Tg5. Ne parlano agenzie,
radio e giornali. Mi è subito chiara la sensazione di
aver dato voce all'indignazione di molti.
Il manipolo dei dignitari, offendendosi per contro terzi,
fa quadrato intorno all'Infallibile.
L'immagine di un dito puntato, di un volto livido di rabbia,
di un potente rivelato nella sua pericolosa debolezza,
così lontano dalla consueta maschera dell'ilare barzellettiere,
si dimostra una notizia gustosa quanto scomoda. Con un
comunicato, nel pomeriggio, decido di rilanciare: "Ho
detto Puffone e non Buffone, sono stato equivocato. Alludevo
alla non alta statura del presidente del Consiglio e alla
sua vena allegra e affabile, che anche oggi ha dato prova
di sé…". Il gioco funziona.
Il 6 maggio da Palazzo Chigi parte la querela.
Il 7 maggio il querelante afferma dai microfoni di Radio
Rai che quella contestazione è stata "un agguato mediatico,
studiato, preparato con il tg3". Mente in buona fede:
il gesto libero e disinteressato lo disorienta, l'indipendenza
dell'informazione non rientra nel suo orizzonte. E aggiunge,
con inconscia autocritica: "la libertà di cronaca non
è la libertà di diffamare".
Poche ore dopo la commissione Giustizia della Camera,
su proposta dell'on. Nino Mormino, eleva le pene per la
diffamazione a mezzo stampa fino a tre anni. Si alza un
gran polverone. Nel giro di poche ore il provvedimento
viene ritirato. Scherzavano.
L'8 maggio il direttore generale della Rai Flavio Cattaneo,
con il consenso della "presidente di garanzia" Lucia Annunziata,
invia ispettori aziendali a Saxa Rubra nella redazione
del tg3, a verificare la tesi dell' "agguato". L'evocazione
manzoniana non era poi fuori luogo.
Lo incontrerò a un convegno Smau nell'ottobre del 2004,
e risponderà così a una mia domanda fuori cerimoniale:
"Noi non abbiamo mai censurato nessuno". Infatti la Guzzanti,
Santoro e gli altri epurati - vere facce di bronzo! -
se ne sono andati volontariamente...
La storiella dell'agguato, accreditata con parole di sdegno
dai dignitari, scatena un secondo polverone, e ben presto
si rivela infondata, l'ispezione viene ritirata, ma nessuno
chiede scusa, e nessuno ne chiede conto all'accusatore.
L'intimidazione verso l'unico tg nazionale non allineato
con l'azienda-partito non sfugge agli osservatori più
accorti. "Prevedevo una dittatura morbida, forse è il
caso di togliere l'aggettivo", dichiara al riguardo Enzo
Biagi. I giornalisti del tg3 si appellano a Ciampi: "Ci
aiuti a tenere la schiena dritta".
Al contrario, Giancarlo Santalmassi, intervistandomi su
Radio 24 la sera delle ispezioni, mi pone questa domanda:
"Dica la verità Ricca, conosce qualcuno al tg3?". Che
spetti ai diffamati l'onere della prova?
Il 13 maggio, a Bari, il presidente del Consiglio in carica,
di fronte a nuove contestazioni di cittadini che lo invitano
a farsi processare e a rispettare le legge, afferma: "Ho
dato mandato all'avvocatura dello Stato di perseguire
penalmente chiunque rechi offesa alla presidenza del Consiglio.
Credo che sia mio dovere". E aggiunge: "Spero che anche
l'opposizione faccia la sua parte" Per la cronaca, l'avvocatura
dello Stato rappresenta la presidenza del Consiglio, parte
civile nei processi a Previti e Berlusconi. Non casuale,
forse, il blitz legislativo del giugno 2003, poi sventato,
volto a sottrarle le competenze nei processi penali.
La buona politica richiede buone maniere. E certi fieri
oppositori non hanno bisogno di essere sollecitati. Il
9 maggio, in una puntata di Excalibur rimasta celebre,
il querelante replica le sue deposizioni spontanee, su
cassetta registrata, per 50 minuti, senza domande. Regge
il microfono l'ottimo Socci. In studio Giuliano Ferrara
e l'on. Marco Boato detto Bozza. Nel corso del dibattito
il primo mi definisce un "demente", il secondo dice: "Mi
associo al demente".
Un chiaro esempio di opposizione collaborativa, che non
dice sempre No. Stile Riformista, per intenderci, che
deplorando la mia partecipazione a un comizio contro il
famigerato Lodo Schifani, in quei giorni in gestazione,
il 15 maggio mi stigmatizza come "l'artista dell'ingiuria",
in linea con Il Foglio, per il quale sarei "l'ignobile
portavoce della banda dei mozzaorecchie giustizialisti".
Non fanno sconti, certi strenui "garantisti", a chi calpesta
le regole del galateo. A gennaio 2004 la procura della
Repubblica di Milano, con provvedimento firmato dalla
dott. Francesca Chiuri, chiede l'archiviazione della querela,
riconoscendo nel mio urlo l'esercizio del diritto di critica
politica.
Tre giorni dopo la corte Costituzionale dichiara illegittimo
il lodo Schifani, la leggina fatta apposta per esonerare
il paroliere di Apicella dai regolari processi a suo carico,
alla vigilia del glorioso semestre europeo a guida italiana.
La notizia che forse l'offensore la fa franca suscita
lo sconcerto di molti gentiluomini della Casa, per esempio
di Mario Giordano, che firma un vibrante editoriale sul
Giornale, e pure dell'onorevole avvocato Pecorella, che
dichiara al Corriere della Sera: "Assolvere chi insultò
il premier rischia di creare un pericoloso precedente".
Le leggi ad personam, i condoni e le tempeste mediatiche
contro la magistratura danno invece il buon esempio. "Del
resto", dirà poi, "quel cittadino non aveva alcun motivo
per dargli del buffone". Un abitante del pianeta Papalla
non potrebbe dir meglio. E in un certo senso concordo:
voglio farmi processare, almeno io. Se l'ultima Salva-Delinquenti
andrà in porto potrei essere l'unico condannato del processo
Sme, per reato connesso. Son soddisfazioni.
L'avvocatura dello Stato, con ricorso firmato dall'avvocato
Michele Damiani, si oppone alla richiesta di archiviazione
e il Gip Adriana Pizzonia, esaudendo i desideri di entrambe
le parti, accoglie il ricorso e fissa l'udienza.
Più sobriamente del querelante nomino come difensori due
liberi professionisti: mio fratello Mino e l'amico Umberto
Ambrosoli, figlio di Giorgio, il commissario liquidatore
della Banca Privata Italiana ucciso l'11 luglio 1979 da
un sicario al soldo del bancarottiere Michele Sindona,
con il sostegno della loggia P2, l'associazione culturale
alla quale - com'è noto - erano iscritti il querelante
e numerosi uomini dell'attuale maggioranza di governo.
Una rinfrescata di memoria, ogni tanto, non fa male.
Il 15 novembre 2004, davanti al giudice di pace di Milano
Lidio Morone, senza arrossire, l'avvocato dello Stato
Michele Damiani, con delega scritta del sottosegretario
Gianni Letta, dichiara di costituirsi parte civile. Secondo
Letta e Damiani avrei creato "un danno all'onore e al
decoro della presidenza del Consiglio", un'istituzione
notoriamente nobilitata da Sua Eccellenza Capelluta Prescritta
e Liftata. Il danno per la "lesa presidenza" è quantificato
in 50.000 euro. Cifra invero modesta, se l'accusa avesse
un qualche fondamento.
Il giudice di Pace, accogliendo l'obiezione dei miei avvocati,
esclude dalla causa la presidenza del Consiglio in quanto
l'ipotesi di reato non tocca l'Istituzione, bensì "si
riferisce solo a sofferenze psichiche di una persona fisica".
Sofferenze psichiche. Quanta umana verità tra le righe
di un'ordinanza!
Chi rappresenta pro tempore una Istituzione, per quanto
fulgida sia la sua gloria, non è dunque titolato a identificarsi
con essa. Norma banale della democrazia, si poteva pensare.
Ma c'è stato bisogno di un giudice di pace per riaffermarla.
Sarà così semplice, mi chiedo, difendere un proprio diritto,
per i politicamente malvisti, quando la magistratura sarà
sottomessa all'esecutivo, come si vuole con la "riforma"
dell'ordinamento giudiziario?
Volevano creare un precedente per scoraggiare i dissidenti,
e gli è andata male. La notizia, forse troppo tecnica,
fatica a passare. Tacciono i tg nazionali. Il Corriere
cartaceo non la dà. "Non mi è stato possibile", mi confiderà
il cronista. Repubblica fa un box ma non la centra. Il
Sole 24 Ore si supera: nel sommarietto in prima pagina
del 17 novembre, scrive col titolo in neretto: "Ingiurie
al premier, Berlusconi non si costituirà parte civile".
Lo spunto viene da un lancio Adn Kronos, in cui l'onorevole
avvocato Ghedini, altro esemplare servitore dello status,
rimescola le carte e dice: "Si voleva solo salvaguardare
il prestigio dell'Istituzione, non c'è alcun accanimento
verso il signor Ricca". Meno male. Poche settimane dopo
Claudio Gentili, non proprio inviso al grande Puffo, lascia
il posto a Ferruccio de Bortoli alla guida del Sole.
I direttori passano, i rompiscatole restano.
Il 17 dicembre spiego in aula ragioni, contesto e significato
della mia critica politica, ribadendo concetti già espressi
in molte sedi di dibattito pubblico. Ho con me chili di
documentazione. Parlo di impunità del potere, menzogna,
censura, vandalismo costituzionale, questione morale,
libertà di espressione, responsabilità individuale. Mi
difendo nel processo, insomma. Vengono acquisiti due miei
dossier. Uno è intitolato "Gag Gaffe Boutade". L'altro
"Politica e Processi". Anche quel famoso "Buffone", spiego
al giudice, è una definizione critica e non certo un'ingiuria.
Come altrimenti definire, senza offenderlo, un tizio che
ciancia e gesticola a quel modo? Entra nel fascicolo anche
la voce "Buffone" del Vocabolario Treccani.
Il 18 febbraio 2005, su richiesta del pubblico ministero
onorario dott. Enrica Marinelli, il giudice di Pace mi
condanna a una multa di 500 euro, pena minima per il reato
di ingiuria. E' la mia prima condanna: sempre meglio che
per un falso in bilancio. Questi i motivi: quel termine
è offensivo in sé; un corridoio non è luogo adatto alla
critica politica; ero consapevole del rischio di offendere;
non è rilevabile alcuna provocazione nel comportamento
del criticato; la presenza dei giornalisti costituisce
un'aggravante.
Verificherò se i giudici della Cassazione abbiano una
maggiore dimestichezza con la logica giuridica, una visione
più ampia della libertà di critica e anche una conoscenza
più esatta della lingua italiana. Scrive Morone: "Non
vi è dubbio che la parola Buffone rappresenti un termine
offensivo, (…) anche in un'interpretazione estensiva (come
l'imputato sostiene di averlo usato) e cioè locuzione
atta a individuare persona incoerente, priva di credibilità".
Siamo di fronte a un verdetto che riflette "il buon senso"
della maggioranza, come esigono i giureconsulti leghisti?
Lo diranno le prossime elezioni. La vox populi del mondo
digitale, intanto, è chiara. Il motore di ricerca Google,
selezionando la voce Buffone, fornisce come primo documento
la biografia dell'attuale presidente del Consiglio. Senz'offesa
per i clown, naturalmente. Ma quante ingiustizie nel mondo
analogico! Chi gli ha dato del "Mafioso" è stato fatto
Ministro delle Riforme; io ambirei almeno al titolo di
stalliere di Arcore…
Attraverso la Reuters, la notizia fa di nuovo il giro
del mondo, dal Messico all'Ungheria. Sul Sidney Morning
Herald viene pubblicata in una rubrica dal titolo "Casi
strani dal mondo". Mi duole aver contribuito a questa
ulteriore capitolo del "complotto antitaliano" della stampa
estera.
Questa volta anche i tg nazionali si scomodano. Dando
la notizia della condanna, i direttori embedded forse
credono di rendere omaggio al permaloso uomo del destino.
Verificherò che il loro zelo è eccessivo, distribuendo
volantini nei mercati. La famosa "gente", mi sembra, comincia
a essere un po' stufa di un capetto linguacciuto e maneggione,
ingiudicabile, che esige e ottiene pure la condanna di
un cittadino che lo critica. Il commento più sapido è
di un signore napoletano: "Mo' chillo è 'o bbuono e tu
sì 'o malamente". Capita, quando i cittadini modello di
Tangentopoli reggano la res publica.
La multa comunque non mi avvilisce. Il giorno dopo, sabato
19 febbraio, sono già da un'altra parte: a Busto Arsizio,
per la precisione, a contestare Sua Eccellenza Padana
Roberto Castelli.
Estratto dal botta e riposta. "Lei è il ministro dell'impunità
del potere e dell'accanimento verso i deboli!". "Lei è
un ignorante, si vergogni!". "Lei ha studiato legge su
Topolino". Dopo la consueta identificazione, Castelli
- bontà sua - annuncia alla stampa che non mi denuncerà,
perché "non mi ha offeso, come ha fatto con Berlusconi".
Fa parte della storia il trattamento da sorvegliato speciale
che mi viene riservato. L'ordine di identificarmi è continuativamente
eseguito. Quando il querelante si appalesa in pubblico
a Milano, negli ultimi tempi la mia libertà di movimento
viene limitata dalla polizia di Stato, neanche fossimo
tornati ai giorni gloriosi del Ventennio. In cinque mi
bloccano per quaranta minuti, il 27 giugno 2004, davanti
al seggio elettorale di via Scrosati, dove il querelante
tenne il suo famoso comizietto illegale a urne aperte.
Ero lì, con alcuni amici, per verificare che non si ripetesse.
Il 29 gennaio 2005 vengo caricato in auto a forza e trattenuto
in commissariato per tre ore, il tempo necessario per
consentire al Puffone di ricordare degnamente Craxi al
centro congressi Le Stelline, davanti a un plaudente pubblico
di sostenitori e pregiudicati. Se non si sentono amati,
questi giganti della Storia chiamano la polizia.
"Lei ha precedenti di turbativa dell'ordine pubblico",
mi spiega una simpatica dirigente di polizia per motivare
il fermo preventivo ad personam. Viene il dubbio che nella
neo-lingua di Puffonia, per "ordine pubblico" non si intenda
altro che "quieto vivere". Sono davvero curioso di sapere
se e come il ministro degli Interni Giuseppe Pisanu risponderà
all'interrogazione presentata al riguardo da un gruppo
di senatori. Sottesa al minuscolo caso personale, c'è
una questione di rilievo quasi filosofico, riassumibile
nel seguente quesito: a cosa serve la legge in democrazia?
a proteggere i potenti che la trasgrediscono dal rischio
di pacifiche contestazioni di piazza, o a tutelare i semplici
cittadini dal rischio di abusi di potere? Io una mia idea
ce l'avrei. Ma per una parola di chiarezza bisognerà consultare
Licio Gelli, il Venerabile Maestro.
Anche un altro prescritto eccellente, Giulio Andreotti,
viene protetto con zelo. In autunno due della Digos mi
impediscono di partecipare a un convegno pubblico in memoria
di Alcide de Gasperi. Il senatore a vita vi figurava come
ospite d'onore. Ma chi offende le Istituzioni? I legislatori
prescritti per mafia e corruzione, o i cittadini che vedono
lo scandalo? A marzo Don Giulio mi spedisce un biglietto
autografo su carta intestata del Senato, in risposta a
una mia lettera aperta. "Io non sono stato assolto per
prescrizione", si legge nel delizioso incipit. Lo racconti
a Bruno Vespa.
Non mi bloccano il 16 ottobre 2004, durante la campagna
elettorale per le suppletive di zona 3 a Milano, sicché
riesco a comunicare al "premier" questo pensiero: "Giù
le mani dalla Costituzione, bugiardo prepotente egoista
affarista piduista!". Il cronista dell'Asca capisce "Terrorista".
Segue meccanica identificazione. Ma questa volta dalla
presidenza del Consiglio nessuna querela, chissà perché.
Un dispositivo di protezione per certi versi analogo viene
messo in atto dalla nutrita schiera degli opinionisti
e dei politici di area governativa. L'elenco di tutti
gli attestati di stima di cui involontariamente mi gratificano
con la loro cialtronesca insolenza, sarebbe lungo e noioso.
Mi limito a due esempi.
Per il ministro Giovanardi sono un "violento fascista"
Lo afferma ripetutamente, protetto dall'insindacabilità
parlamentare, la sera del 5 maggio 2003, in una diretta
su Telelombardia. Un modo onorevole per guadagnarsi il
pane?
Alcuni guardiani delle Libertà si spingono oltre. Una
multa non basta, "ci vuole la gogna, le legnate, gli schiaffi",
sostiene Marcello Veneziani, consigliere di amministrazione
Rai, il 19 febbraio 2005, sulla prima del quotidiano Libero.
"Suvvia, era un paradosso", mi farà sapere dalla segretaria
l'intellettuale di riferimento della destra italiana.
Ecco, è punteggiata di episodi e personaggi simili questa
piccola storia: pregiudicati per corruzione e collusi
con la mafia onorati come padri nobili, azzeccagarbugli
e bravacci manzoniani che fanno i deputati e i direttori,
certi oppositori dialoganti che ogni governante si augurerebbe,
una psicopolizia che protegge gli eversori dal rischio
di una pernacchia, e - su tutto - la titanica figura di
un anguillesco imputato, feudatario dell'etere, che con
lo stile del ciarlatano da fiera si erge a salvatore della
patria. Che tempi! Ma è una storia anche attraversata
dalla solidarietà di tantissime persone perbene. Tra queste,
uomini come Sartori, Bocca, Cordero, Furio Colombo, Don
Ciotti, Consolo, Fo. Eccoli, i mandanti morali dell' "agguato".
Sarà un caso che nessuno di loro abbia bevuto il latte
alle Botteghe Oscure?
Di questa vicenda hanno colto il senso, con pochi tratti
di matita, due artisti di satira: Danilo Maramotti e Massimo
Bucchi. Il primo ha raffigurato la famosa querela come
una denuncia per "istigazione alla legalità". Il secondo
ha raccontato quel mio urlo con una vignetta in cui da
un autobus esce una nuvoletta con un sonore "Buffone!",
mentre una sghemba didascalia spiega: "Kamikaze su autobus
italiano".
Sotto il governo dei "liberali", Stato di diritto e libertà
di espressione appaiono lussi da rinviare a tempi migliori.
Ora urgono altre priorità: abbattere la tirannide comunista,
esportare pace e democrazia in Medioriente e naturalmente
preservare l' "onore delle Istituzioni". Senza trascurare,
nei ritagli di tempo, la manutenzione dei giardini nelle
ville secretate e dei conti neri nei paradisi off-shore.
E poi si offendono se uno li chiama Buffoni.
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