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Recensione della rivista Indipendenza

Marco Travaglio è diventato noto come denunciatore particolarmente lucido, informato ed acuminato degli imbrogli, degli illeciti guadagni e delle losche frequentazioni di Berlusconi e dei berluscones. Per questo è stato inizialmente sostenuto dalla sinistra interessata a fare apparire il berlusconismo unica causa del progressivo degrado economico, sociale e civile della vita nazionale, in modo da lasciare in ombra la causa vera di tale degrado, la deregolamentazione neoliberista di ogni mercato e la mercantilizzazione di ogni produzione e servizio, a cui la sinistra stessa ha dato mano, non meno, semmai più, del Berlusconismo, che di quel degrado è più che altro un effetto. Non meraviglia, quindi, che Travaglio non sia stato amato dalle minoranze critiche verso il sistema sociale vigente, le quali, tuttavia, spesso non comprendono come denunce e rivelazioni circostanziate in ambiti ristretti, se fatte in maniera sempre coerente e non innestata in manovre di potere, sono comunque di qualche beneficio.

Travaglio è poi passato a denunciare, con la stessa acuminata lucidità, la vasta rete di sotterranee collusioni di diversi ambienti della sinistra con le pratiche berlusconiane, duramente contestate in linea di principio e ad uso di una platea elettorale sempre immersa nelle apparenze. Di qui è nata la sua ultima opera. Naturalmente ora egli non piace più alla sinistra che prima gli aveva dato voce, e che ha già cominciato ad emarginarlo e calunniarlo. Non per questo, tuttavia, si è attirato la simpatia della sinistra cosiddetta radicale, alla quale non piace da un lato il suo tenersi lontano da temi sociali, dall'altro la sua attuale denuncia senza sconti delle porcherie degli uomini di D'Alema, Fassino, Rutelli e compagnia, con i quali essa si è alleata. Travaglio piace soltanto, in pratica, alla piccola area rappresentata dal professor Pardi, che contesta duramente l'inadeguatezza dei gruppi dirigenti della sinistra, ma a partire dal dogma che la sinistra è comunque il meglio e deve rimanere unita per vincere, senza nemmeno sospettare che in questo modo si priva di ogni arma contro i gruppi dirigenti contestati, i quali non tradiscono affatto, ma esprimono veracemente un popolo di sinistra che non cerca più la giustizia e si è adattato alle politiche neoliberiste, esprimono veracemente, cioè, quello che la sinistra nel suo complesso è realmente.

Tutto questo non toglie che i libri di Travaglio siano ottimi, sempre documentati con serietà e precisione oggi sconosciute, e che l'ultimo in particolare, di cui si parla, Inciucio, scritto in collaborazione con Peter Gomez, sia un vero capolavoro. Certo, in esso non c'è traccia del modo infame con cui i dirigenti della sinistra da lui criticati affrontano (vale a dire non affrontano) i problemi del lavoro sottopagato e senza diritti, della rovina ambientale, dell'invivibilità urbana, dellla rapacità spoliatrice dell'alta finanza, e via dicendo. Ma questi non sono gli argomenti di cui Travaglio e Gomez si occupano, e non ha proprio senso criticare la loro mancata trattazione, o comunque considerarla un limite, perché è naturale che un intellettuale abbia il suo specifico campo di indagine. Travaglio e Gomez si occupano, con enorme competenza e sincera passione civile, di corruzione politica e di illegale gestione del potere. Si tratta, tra l'altro, di questioni di dirompente portata sociale, al di là delle motivazioni e delle concezioni di coloro che le affrontano, dal momento che l'odierno processo di accumulazione capitalistica non può svilupparsi che in violazione delle leggi formalmente sancite e nell'intreccio della sua finanza con la criminalità accaparratrice di risorse.

Inciucio racconta diverse storie della sinistra, lumeggiandone i personaggi. D'Alema, ad esempio. Eletto segretario politico del PDS il 1° luglio 1994, all'epoca del primo governo di Berlusconi, alla fine di quell'anno, quando Berlusconi è rovesciato da Bossi, è tra i principali patrocinatori del governo di Lamberto Dini, nato per stemperare i contrasti tra gli avversi schieramenti. Travaglio passa in rassegna le più importanti prese di posizione, oggi dimenticate, di D'Alema nel 1995: il duro attacco del 1° giugno, davanti all'Associazione nazionale costruttori, ai giudici di "Mani Pulite", accusati di interferire nelle decisioni politiche, di criminalizzare pezzi interi di economia, e di ostacolare lo sviluppo; l'accoglienza calorosa, al congresso del PDS di luglio a Roma, fatta a Berlusconi, Letta e Dell'Utri, con quest'ultimo che gli riconosce sensibilità e disponibilità verso il mondo berlusconiano; un nuovo attacco ai giudici in un'intervista poco successiva a La Stampa; l'impegno profuso nel tentare di far sorgere, al momento della crisi del governo Dini, un governo di collaborazione tra l'area moderata della sinistra (PDS e PPI) e l'area moderata della destra (identificata in Forza Italia), per il quale si pensa prima allo stesso Dini (il cosiddetto Dini-bis), e poi ad Antonio Maccanico. Un tale governo è all'epoca indicato come "governissimo", o, da coloro che più ne auspicano la nascita, come "governo di larghe intese". Travaglio ci ricorda, a questo proposito, il lapsus insieme comico ed illuminante, veramente freudiano, di Dini che, in parlamento, rivolto a D'Alema, elogia il comune sforzo di pervenire ad un "governo di larghe imprese". Ci sono, in effetti, le imprese della grande costellazione finanziario-televisivo-pubblicitario-editoriale con le quali Berlusconi ha costruito il suo potere. E ci sono le imprese che Claudio Velardi, imprenditore pubblicitario legato a D'Alema, cerca di collegare in un unico sistema di interessi che abbia il suo referente politico in D'Alema stesso. La più importante è la Montepaschi di Siena, una delle maggiori banche italiane, tradizionalmente guidata da dirigenti orientati a sinistra. Alla costellazione dalemiana si aggregano i Marchini, storici "palazzinari rossi", che promuovono un incontro e un'intesa di D'Alema con Cuccia. Perché mettere a repentaglio gli interessi di queste due costellazioni affaristiche in un reciproco scontro? Meglio, per entrambi, le "larghe imprese". Quando, perciò, fallito il tentativo di Maccanico di formare un governo destra-sinistra, per la contrarietà di Fini su un versante e di Prodi sull'altro, è aperta la strada alla competizione del voto popolare del 21 aprile 1996, D'Alema non si rassegna allo scontro, tanto da recarsi due settimane prima della sfida elettorale tra Berlusconi e Prodi, il 4 aprile 1996, agli studi Mediaset di Cologno Monzese. Travaglio ci ricorda tutti i particolari significativi di quella visita: le profferte di reciproca cooperazione fatte da D'Alema ai dirigenti di Mediaset, le risposte positive date da Fedele Confalonieri ed Emilio Fede, la sua famosa affermazione che "Mediaset è un patrimonio per l'Italia", la sua solenne promessa che "voi [di Mediaset] non dovete temere il giorno dopo la vittoria elettorale della sinistra. Non ci sarà nessun day after". Come documenta Travaglio in lunghe pagine che non è questa la sede per riassumere, non è stato affatto un caso (e come d'altronde avrebbe potuto esserlo?) che, dopo la vittoria elettorale di Prodi del 21 aprile 1996, nei lunghi cinque anni del governo della sinistra (1996-2001), non sia stata varata alcuna legge sul conflitto di interessi (che pure era nel programma dell'Ulivo), non sia stata tolta a Berlusconi una delle sue reti via etere (disattendendo non soltanto un esplicito impegno preelettorale di Prodi, che aveva addirittura detto "questa sarà la prima cosa che faremo una volta al governo", ma addirittura una sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale il 7 dicembre 1994), e sia stata agevolata la quotazione in borsa di Mediaset, in modo da liberarla da un drammatico carico debitorio. Tutto questo è avvenuto in attuazione di un patto occulto patrocinato da D'Alema, e avallato da Prodi con la nomina a suo ministro della poste e telecomunicazioni di Maccanico, l'uomo delle "larghe imprese", menando per il naso il popolo di sinistra, convinto dalla propaganda ufficiale dei suoi dirigenti che il voto all'Ulivo servisse alla lotta intransigente contro la destra berlusconiana, addirittura contro il paericolo fascista da essa rappresentato. Qui non siamo d'accordo con Travaglio: il popolo di sinistra non è ingannato abilmente suo malgrado, ma si inganna volontariamente, spengendosi ogni giorno l'intelligenza e la memoria per mantenere un'appartenenza vuota di ideali e rispondente più che altro a bisogni identitari, o narcisisti, o di meschini interessi. Spiace anche come Travaglio ci ricordi, del D'Alema subentrato alla fine del 1998 a Prodi come capo del governo, soltanto il comitato di affari creato da Claudio Velardi, che indusse Guido Rossi a definire argutamente il Palazzo Chigi dalemiano come "una merchant bank dove non si parla inglese". Porcherie, certo. Come quella degli Angelucci, i re delle cliniche romane, che ripianano tutti i debiti del PDS e che, in cambio, sono messi da D'Alema in condizione di impadronirsi del mega-ospedale San Raffaele. O come quella di Vincenzo De Bustis, potente dirigente bancario della Montepaschi amicissimo di D'Alema, d'intesa con il quale cerca di incorporare nella Montepaschi la Banca del Salento. Lo scopo è quello di dare alla già consistente Montepaschi liquidità sufficiente per scalare la Banca nazionale del lavoro, creando un potentissimo polo bancario dalemiano. L'operazione fallisce perché De Bustis è travolto dalle inchieste giudiziarie sui prodotti finanziari ad alto rischio spacciati per sicuri ai clienti della Banca del Salento, e portatori invece di rovina per centinaia di faimglie. Un altro polo dalemiano avrebbe dovuto essere la Telecom privatizzata e passata nelle mani di Colaninno e Gnutti, fortemente incoraggiati da D'Alema, ma anche questa operazione fallisce, perché alla fine della Telecom si impadronisce la "Olimpia" di Tronchetti Provera. Affari, affari e ancora affari, spesso sporchi come quelli fatti sugli aiuti in Albania, nei quali sono coinvolti diversi collaboratori di D'Alema, allora indagati dal giudice Michele Emiliano, oggi sindaco di Bari per il centrosinistra. Ancora Guido Rossi disse che nell'entourage dalemiano "entrarono persone con le pezze al culo che ne uscirono poi miliardarie". Cose che Travaglio ha fatto bene a ricordare. Ma sarebbe occorso accennare, benché non si tratti del campo di studio di Travaglio, come D'Alema si sia aperto la strada alla guida del governo quale uomo degli americani per coinvolgere l'Italia nella guerra contro la Serbia, e come anche per questo preciso motivo abbia ottenuto il determinante appoggio parlamentare dei transfughi della destra guidati da Cossiga (chi ricorda più che facevano parte della maggioranza di D'Alema e Scognamiglio, suo ministro della difesa, Buttiglione e Cirami, sì, proprio quel Cirami che poi, tornato a destra, darà il nome alla famosa legge berlusconiana?), come, sempre quale uomo degli americani, si sia fatto eversore della Costituzione nei suoi articoli 11 e 78, abbia spudoratamente mentito sul ruolo degli aerei italiani in Serbia, abbia abbandonato Ocalan ai torturatori turchi. Sono queste le vicende che hanno definito per il futuro il profilo politico di D'Alema.

Messo da parte Prodi, bruciato D'Alema dalla sconfitta alle elezioni regionali della primavera del 2000, lo sfidante di Berlusconi alle elezioni politiche del 13 maggio 2001 è Rutelli, altro personaggio ben lumeggiato da Travaglio. Francesco Rutelli si è fatto inizialmente strada in politica sulla base praticamente di un solo merito, quello di aver saputo suscitare la predilezione nei suoi confronti di Marco Pannella, che negli anni Ottanta lo ha portato prima, a soli ventisei anni, ad essere eletto segretario del suo partito radicale, poi, quando ha inviato una sua pattiglia a contribuire alla nascita dei cosiddetti Verdi Arcobaleno, ad avere un ruolo di spicco nella nuova formazione. Seguendo la linea di Pannella di quegli anni, Rutelli è stato un antimilitarista integrale, un pacifista e un duro anticlericale. Successivamente, però, nel periodo in cui si è ricomposta la divisione dei Verdi, i Verdi riuniti si sono integrati nella coalizione di centrosinistra, e la coalizione di centrosinistra lo ha candidato sindaco di Roma, egli si è gradualmente smarcato dalla linea pannelliana, abbandonata del resto dallo stesso Pannella, spostatosi a destra. A partire da quando, alla fine del 1993, è stato eletto sindaco di Roma, ed ha avuto l'opportunità di allargare le sue basi di potere con l'appoggio della curia e della finanza vaticane, Rutelli, ci ricorda Travaglio, ha dimenticato completamente il suo anticlericalismo del giorno prima, si è scoperto religioso, arrivando fino, nel 1995, a risposare Barbara Palombelli, civilmente già sua moglie, con rito cattolico concordatario: lui, aspro contestatore, dieci anni prima, del rinnovo del Concordato! Nel 2001 lascia la carica di sindaco di Roma, alla quale era stato rieletto, a Walter Veltroni, per assumere la guida del nuovo partito della Margherita (nato dalla fusione dei popolari con i diniani ed i prodiani), e dell'intera coalizione di centrosinistra, alle elezioni del 13 maggio. Naturalmente, dopo cinque anni di grigissima gestione del potere da parte del centrosinistra, che ha reso attraente nel popolo ignorante l'illusionismo berlusconiano, la destra esce vincitrice dalle elezioni ed il bel Francesco deve contentarsi del ruolo di capo dell'opposizione. Per farne un piedistallo di visibilità e di influenza politiche, lo svolge all'inizio con conclamato rigore, mettendosi in mostra soprattutto come pubblico accusatore delle conculcate libertà radiotelevisive: attacca violentemente il direttore generale della Rai-TV Agostino Saccà per la cacciata dagli schermi, in esecuzione della volontà manifestata da Berlusconi da Sofia, dove è in visita ufficiale, di Biagi, Santoro e Luttazzi (Travaglio ci ricorda, peraltro, come Saccà, amico e protetto di Velardi, consigliere di D'Alema, sia stato imposto come direttore del primo canale televisivo dallo stesso D'Alema quando era capo del governo); successivamente invia un messaggio alle migliaia di manifestanti accorsi all'auditorium di Roma per protestare contro la soppressione del programma di Sabina Guzzanti; successivamente ancora arringa con parole di fuoco la folla raccoltasi davanti al Senato contro la legge Gasparri allora in discussione, e moltiplica le sue denunce del carattere liberticida della gestione berlusconiana della Rai-TV. Da un certo momento in poi, però, nota Travaglio, l'archivio dell'Ansa non riporta più alcuna denuncia di Rutelli contro la Rai-TV berlusconiana, e Berlusconi comincia addirittura a dichiarare ripetutamente di desiderare al vertice dell'azienda radiotelevisiva Barbara Palombelli, la quale, mesi prima, ha tenuto su Sette (la rivista poi ribattezzata Magazine) una rubrica rievocativa del "1993, l'anno del Grande Terrore", dove per "Grande Terrore" ha inteso l'azione giudiziaria contro il gran giro delle tangenti, azione da lei definita "colpo di Stato di una magistratura politicizzata", attraverso una "persecuzione assassina" di politici rei, come Craxi, di "peccati veniali" (sic!). Che cosa è mai successo al bel Francesco?

Travaglio racconta come il più intraprendente ed ubiquo tra i paparazzi romani, Umberto Pizzi, abbia fotograficamente carpito un incontro conviviale tra il ministro Gasparri e Rutelli a Palazzo Venezia a Roma, durante il Gran Galà Telethon del 2004, proprio nel periodo in cui si lanciavano pubblicamente feroci accuse reciproche. Nella fotografia di Pizzi, invece, Rutelli e Gasparri siedono sorridenti attorno allo stesso tavolo davanti ad un filetto di manzo al rosmarino e ad un piatto di funghi porcini. L'incontro è a quattro, perché accanto a Gasparri siede giuliva e loquace la Palombelli, moglie di Rutelli, ed accanto a questi siede, con un'espressione più seria, il nuovo direttore generale della Rai-TV succeduto a Saccà, ovvero Flavio Cattaneo. Subito dopo quell'incontro Cattaneo, uomo di Berlusconi, ha sottoscritto con la Palombelli, donna di Rutelli, un contratto d'oro (per la Palombelli, non certo per la Rai-TV): le e' stato chiesto di essere regista e ospite fissa di un nuovo programma di confronto politico, Punto e a capo, condotto da Masotti e Vergara, di fare alcune comparse in Porta a Porta di Vespa, e di curare un programma radiofonico quotidiano, il tutto compensato con la bella sommetta di 300000 euro, oltre che con il sottinteso vantaggio politico che ne avrebbe ricavato il marito. Questi, subito dopo l'allegro e pingue convito, cessa di battersi contro la censura televisiva.

Ma la responsabilità di aver cacciato tanti personaggi scomodi dal video è soltanto di Berlusconi e dei berluscones? Travaglio chiarisce, per chi non lo sapesse, che un forte potere è nelle mani del presidente della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai-TV, e che per regolamento quella presidenza non può andare ad un appartenente alla maggioranza governativa, ma spetta all'opposizione. Nel quinquennio 1996-2001, in cui ha governato il centrosinistra, infatti, presidente della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai-TV è stato Francesco Storace, designato da Alleanza nazionale, che ha svolto con grintosa efficacia il suo compito, condizionando in modo non irrilevante la gestione televisiva della sinistra. Nel 2001, quindi, con la destra al governo, quella presidenza spetta alla sinistra, e, poiché la Margherita ha già il capo dell'opposizione, spetta specificamente al PDS, di cui è allora segretario il torinese Piero Fassino, terzo personaggio, dopo D'Alema e Rutelli, di cui ora riferiamo gli "inciuci" raccontati da Travaglio.

Nel 2001, all'inizio della nuova legislatura, Fassino è segretario del PDS da appena pochi mesi. Poiché infatti Rutelli aveva lasciato a Veltroni il comune di Roma per diventare capo del centrosinistra, e poiché Veltroni, per diventare sindaco di Roma, aveva dovuto lasciare la segreteria del PDS (in cui era subentrato a D'Alema quando questi, nel 1998, era divenuto capo del governo), la segreteria era rimasta vacante, ed era così andata a Fassino. Benché fresco di nomina, il nuovo segretario si impone subito, appunto, sulla questione della presidenza della commissione di vigilanza della Rai-TV. Il candidato naturale a tale carica è il diessino Antonello Falomi, che nella precedente legislatura ha guidato la delegazione diessina nella commissione, contrapponendosi con vigore all'allora presidente Storace. Fassino però non lo vuole, e pretende che al suo posto vada Claudio Petruccioli. Benché militante continuativo nel partito fin dall'adolescenza, prima nel PCI, poi nel PDS, infine nei DS, Petruccioli vanta un ampio spettro di entrature e legami trasversali: ha, tramite la moglie, una parentele acquisita con gli Agnelli, ha rapporti con il banchiere Luigi Arcuti che gli consentono di contare nell'IMI e nella Banca San Paolo, è legato ad Enrico Mentana, Giuliano Ferrara, Adriano Sofri. Tra i suoi amici più stretti ci sono eminenti personalità di Mediaset, come Gina Nieri e Fedele Confalonieri, con cui si ritrova a cenare insieme diverse volte ogni anno.

La delegazione diessina della commissione, chiamata a scegliere il presidente tra i due candidati, vota però a maggioranza schiacciante Falomi contro Petruccioli. In una democrazia seria, o in un paese normale, auspicato da D'Alema nel libro dall'omonimo titolo pubblicato nel 1995 per la Mondadori di Berlusconi, la partita si sarebbe chiusa con Falomi presidente. Le vicende successivamente accadute, che Travaglio ci racconta, hanno invece dell'incredibile. Fassino pretende che la votazione sia ripetuta, ma da un diverso collegio elettorale. Per scongiurare, evidentemente, una nuova vittoria di Falomi. Voteranno, dice Fassino, soltanto i commissari diessini senatori, e non anche i deputati. Nessuno si ribella all'assurdo di far eleggere il presidente di una commissione bicamerale da un collegio unicamerale. Ma, si sa, il diessino obbedisce all'autorità partitica costituita "perinde ac cadaver", mettendo cervello e cuore in naftalina, secondo l'antica tradizione comunista (la tragedia replicata come farsa, secondo la nota espressione di Marx). Petruccioli, tuttavia, è un uomo che, come sa chiunque vi abbia avuto contatti (a parte tipi come Ferrara, Sofri e Berluscones vari), ispira antipatia. Il nuovo collegio costituito da Fassino, perciò, vota ancora per Falomi. Fassino, e siamo ormai alla farsa democratica, fa ripetere per la terza volta la votazione, con una nuova modifica degli elettori, con lo scorno di vedere per la terza volta Falomi. Chiama allora a votare tutti i senatori diessini, anche quelli non membri della commissione di cui si deve scegliere il presidente, escludendo però i deputati, compresi quelli membri della commissione, e facendo fare pressioni da Angius su questo nuovo collegio. Vince così finalmente Petruccioli, sia pure con un solo voto di scarto.

Quale profilo di Piero Fassino emerge da questa vicenda? In generale, quello di un dirigente certamente più interessato alle entrature in qualche ambiente imprenditorialaffaristico torinese, che Petruccioli gli garantisce, piuttosto che all'etica democratica. Ma, nella situazione specifica, quello di chi, dovendo guidare il partito dall'opposizione, punta tutte le sue carte sulla buona disposizione della maggioranza, chiamata a ricambiare i favori ricevuti, quando era opposizione, dall'opposizione che era allora maggioranza. Solo nei confronti degli elettori si fa la recita, in cui peraltro la pubblica opinione si lascia facilmente coinvolgere, dello scontro all'ultimo sangue della sinistra con la destra.

Petruccioli è davvero l'uomo adatto alla bisogna, come rivelano le sue dichiarazioni, documentate da Travaglio, di stima per Martelli, di rimpianto (sì, proprio rimpianto) per Craxi, di ostilità per la magistratura che pretende di perseguire i reati dei politici. Travaglio documenta anche l'impressionante, pur se coperta, cooperazione da lui prestata alla gestione televisiva del governo Berlusconi. Sono episodi che non conviene riassumere, ma devono essere seguiti sul libro nel loro sviluppo.

Mentre Petruccioli presiede la commissione di vigilanza, deve essere rinnovato il consiglio di amministrazione della Rai-TV, composto, secondo la legge, da cinque membri "di notoria indipendenza di comportamenti", la cui scelta, alla quale governo e partiti debbono rimanere estranei, spetta unicamente ai presidenti delle Camere. Costoro devono anche scegliere come presidente del consiglio di amministrazione della Rai-TV uno dei cinque membri che lo compongono; si conviene che tale presidente spetti all'opposizione, come garanzia rispetto ad una maggioranza di consiglieri scelti, si conviene pure, anche se la legge non lo dice, in omogeneità alla maggioranza esistente in parlamento.

Ancora una volta interviene Fassino per fare, con il livello di rispetto per la legalità già dimostrato, una scelta da cui la legge esplicitamente lo esclude. È lui, infatti, che nel marzo 2003 indica al presidente della Camera Casini il nome di Lucia Annunziata come "presidente di garanzia" del consiglio di amministrazione della Rai-TV, ed è lui che comunica telefonicamente la nomina della stessa Annunziata. Casini la nomina non l'ha ancora ufficialmente fatta, ma Fassino è ufficiosamente certo che la farà, perché Casini, con il suo rispetto della legalità, pari a quello di Fassino, vuole evitare una scelta contraria ai desideri di Berlusconi, e sa che il segretario dei DS vuole la stessa cosa. La "notoria indipendenza di comportamenti" prescritta dalla legge non consiste in altro, per l'Annunziata, che nella disinvoltura con cui è pronta a svolgere qualsiasi ruolo soddisfi la sua ambizione senza principi. Lo rivela la sua carriera di giornalista, da Il Manifesto a Il Riformista passando per Il Foglio. Lo rivela poi, per quattordici mesi, nella sua ridicola veste di "presidente di garanzia" che voterà con i consiglieri della destra sia per cacciare la Guzzanti dagli schermi televisivi, sia per mettere sotto ispezione il Tg3 reo di aver mostrato immagini della contestazione di Berlusconi al tribunale di Milano.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, che utilità abbia seguire queste vicende e questi personaggi, e le tante altre vicende e i tanti altri personaggi di cui si parla nel libro. Non si tratta forse di miserie personali in un mondo di politicanti e conduttori mediatici, un mondo rarefatto e parassitario che non serve a capire il mondo reale delle produzioni, delle tecnologie, delle inclusioni ed esclusioni sociali, delle guerre dell'economia?

Il fatto è che dalla descrizione e ricostruzione di questo mondo fatte con il talento di Travaglio emerge un modello antropologico di ceto politico in cui si condensano condizionamenti multipli di molteplici livelli dell'economia e della società. Di questo modello antropologico vanno comprese, al di là del discorso di Travaglio, le radici strutturali inscritte in una determinata fase storica. Per questa via si può arrivare a capire come un certo genere di economia abbia dissolto la politica, e come quindi non esistano più non soltanto conflitti tra progetti politici divergenti, ma neppure progetti politici come tali.

E, comunque, una conoscenza dell'attuale antropologia del ceto politico è utile anche in se stessa, perché immunizza dalla distorsione mentale di "tifare" per la destra o per la sinistra. Quel che gli "inciuci" ricostruiti da Travaglio rivelano, si badi bene, non è che destra e sinistra sono eguali tra loro e che non confliggono, ma che i loro conflitti sono di pura occupazione di poteri disegnati da un'evoluzione sociale (meglio sarebbe dire involuzione e disgregazione) dettata dalla sola economia del profitto, senza alcun diverso progetto di società. Senza volerlo, Travaglio permette di capire che è male votare sia per questa destra che per questa sinistra, la cui alternanza al potere crea l'illusione di un qualche miglioramento sociale ora da parte dell'una, ora da parte dell'altra. Ma non è bene neppure astenersi dal voto, perché il peso politico dell'astensione è zero. La cosa meno peggiore da fare è dare il voto a qualche eccentrico e magari cervellotico simbolo che troviamo sulla scheda elettorale, in modo da contribuire ad un abbassamento percentuale sia della destra che della sinistra. Le cose più importanti da fare, poi, stanno fuori dal campo del giuoco elettorale.