Recensione della rivista Indipendenza
Marco Travaglio è diventato
noto come denunciatore particolarmente lucido, informato
ed acuminato degli imbrogli, degli illeciti guadagni
e delle losche frequentazioni di Berlusconi e dei berluscones.
Per questo è stato inizialmente sostenuto dalla sinistra
interessata a fare apparire il berlusconismo unica causa
del progressivo degrado economico, sociale e civile
della vita nazionale, in modo da lasciare in ombra la
causa vera di tale degrado, la deregolamentazione neoliberista
di ogni mercato e la mercantilizzazione di ogni produzione
e servizio, a cui la sinistra stessa ha dato mano, non
meno, semmai più, del Berlusconismo, che di quel degrado
è più che altro un effetto. Non meraviglia, quindi,
che Travaglio non sia stato amato dalle minoranze critiche
verso il sistema sociale vigente, le quali, tuttavia,
spesso non comprendono come denunce e rivelazioni circostanziate
in ambiti ristretti, se fatte in maniera sempre coerente
e non innestata in manovre di potere, sono comunque
di qualche beneficio.
Travaglio è poi passato
a denunciare, con la stessa acuminata lucidità, la vasta
rete di sotterranee collusioni di diversi ambienti della
sinistra con le pratiche berlusconiane, duramente contestate
in linea di principio e ad uso di una platea elettorale
sempre immersa nelle apparenze. Di qui è nata la sua
ultima opera. Naturalmente ora egli non piace più alla
sinistra che prima gli aveva dato voce, e che ha già
cominciato ad emarginarlo e calunniarlo. Non per questo,
tuttavia, si è attirato la simpatia della sinistra cosiddetta
radicale, alla quale non piace da un lato il suo tenersi
lontano da temi sociali, dall'altro la sua attuale denuncia
senza sconti delle porcherie degli uomini di D'Alema,
Fassino, Rutelli e compagnia, con i quali essa si è
alleata. Travaglio piace soltanto, in pratica, alla
piccola area rappresentata dal professor Pardi, che
contesta duramente l'inadeguatezza dei gruppi dirigenti
della sinistra, ma a partire dal dogma che la sinistra
è comunque il meglio e deve rimanere unita per vincere,
senza nemmeno sospettare che in questo modo si priva
di ogni arma contro i gruppi dirigenti contestati, i
quali non tradiscono affatto, ma esprimono veracemente
un popolo di sinistra che non cerca più la giustizia
e si è adattato alle politiche neoliberiste, esprimono
veracemente, cioè, quello che la sinistra nel suo complesso
è realmente.
Tutto questo non toglie
che i libri di Travaglio siano ottimi, sempre documentati
con serietà e precisione oggi sconosciute, e che l'ultimo
in particolare, di cui si parla, Inciucio, scritto in
collaborazione con Peter Gomez, sia un vero capolavoro.
Certo, in esso non c'è traccia del modo infame con cui
i dirigenti della sinistra da lui criticati affrontano
(vale a dire non affrontano) i problemi del lavoro sottopagato
e senza diritti, della rovina ambientale, dell'invivibilità
urbana, dellla rapacità spoliatrice dell'alta finanza,
e via dicendo. Ma questi non sono gli argomenti di cui
Travaglio e Gomez si occupano, e non ha proprio senso
criticare la loro mancata trattazione, o comunque considerarla
un limite, perché è naturale che un intellettuale abbia
il suo specifico campo di indagine. Travaglio e Gomez
si occupano, con enorme competenza e sincera passione
civile, di corruzione politica e di illegale gestione
del potere. Si tratta, tra l'altro, di questioni di
dirompente portata sociale, al di là delle motivazioni
e delle concezioni di coloro che le affrontano, dal
momento che l'odierno processo di accumulazione capitalistica
non può svilupparsi che in violazione delle leggi formalmente
sancite e nell'intreccio della sua finanza con la criminalità
accaparratrice di risorse.
Inciucio racconta diverse
storie della sinistra, lumeggiandone i personaggi. D'Alema,
ad esempio. Eletto segretario politico del PDS il 1°
luglio 1994, all'epoca del primo governo di Berlusconi,
alla fine di quell'anno, quando Berlusconi è rovesciato
da Bossi, è tra i principali patrocinatori del governo
di Lamberto Dini, nato per stemperare i contrasti tra
gli avversi schieramenti. Travaglio passa in rassegna
le più importanti prese di posizione, oggi dimenticate,
di D'Alema nel 1995: il duro attacco del 1° giugno,
davanti all'Associazione nazionale costruttori, ai giudici
di "Mani Pulite", accusati di interferire nelle decisioni
politiche, di criminalizzare pezzi interi di economia,
e di ostacolare lo sviluppo; l'accoglienza calorosa,
al congresso del PDS di luglio a Roma, fatta a Berlusconi,
Letta e Dell'Utri, con quest'ultimo che gli riconosce
sensibilità e disponibilità verso il mondo berlusconiano;
un nuovo attacco ai giudici in un'intervista poco successiva
a La Stampa; l'impegno profuso nel tentare di far sorgere,
al momento della crisi del governo Dini, un governo
di collaborazione tra l'area moderata della sinistra
(PDS e PPI) e l'area moderata della destra (identificata
in Forza Italia), per il quale si pensa prima allo stesso
Dini (il cosiddetto Dini-bis), e poi ad Antonio Maccanico.
Un tale governo è all'epoca indicato come "governissimo",
o, da coloro che più ne auspicano la nascita, come "governo
di larghe intese". Travaglio ci ricorda, a questo proposito,
il lapsus insieme comico ed illuminante, veramente freudiano,
di Dini che, in parlamento, rivolto a D'Alema, elogia
il comune sforzo di pervenire ad un "governo di larghe
imprese". Ci sono, in effetti, le imprese della grande
costellazione finanziario-televisivo-pubblicitario-editoriale
con le quali Berlusconi ha costruito il suo potere.
E ci sono le imprese che Claudio Velardi, imprenditore
pubblicitario legato a D'Alema, cerca di collegare in
un unico sistema di interessi che abbia il suo referente
politico in D'Alema stesso. La più importante è la Montepaschi
di Siena, una delle maggiori banche italiane, tradizionalmente
guidata da dirigenti orientati a sinistra. Alla costellazione
dalemiana si aggregano i Marchini, storici "palazzinari
rossi", che promuovono un incontro e un'intesa di D'Alema
con Cuccia. Perché mettere a repentaglio gli interessi
di queste due costellazioni affaristiche in un reciproco
scontro? Meglio, per entrambi, le "larghe imprese".
Quando, perciò, fallito il tentativo di Maccanico di
formare un governo destra-sinistra, per la contrarietà
di Fini su un versante e di Prodi sull'altro, è aperta
la strada alla competizione del voto popolare del 21
aprile 1996, D'Alema non si rassegna allo scontro, tanto
da recarsi due settimane prima della sfida elettorale
tra Berlusconi e Prodi, il 4 aprile 1996, agli studi
Mediaset di Cologno Monzese. Travaglio ci ricorda tutti
i particolari significativi di quella visita: le profferte
di reciproca cooperazione fatte da D'Alema ai dirigenti
di Mediaset, le risposte positive date da Fedele Confalonieri
ed Emilio Fede, la sua famosa affermazione che "Mediaset
è un patrimonio per l'Italia", la sua solenne promessa
che "voi [di Mediaset] non dovete temere il giorno dopo
la vittoria elettorale della sinistra. Non ci sarà nessun
day after". Come documenta Travaglio in lunghe pagine
che non è questa la sede per riassumere, non è stato
affatto un caso (e come d'altronde avrebbe potuto esserlo?)
che, dopo la vittoria elettorale di Prodi del 21 aprile
1996, nei lunghi cinque anni del governo della sinistra
(1996-2001), non sia stata varata alcuna legge sul conflitto
di interessi (che pure era nel programma dell'Ulivo),
non sia stata tolta a Berlusconi una delle sue reti
via etere (disattendendo non soltanto un esplicito impegno
preelettorale di Prodi, che aveva addirittura detto
"questa sarà la prima cosa che faremo una volta al governo",
ma addirittura una sentenza pronunciata dalla Corte
costituzionale il 7 dicembre 1994), e sia stata agevolata
la quotazione in borsa di Mediaset, in modo da liberarla
da un drammatico carico debitorio. Tutto questo è avvenuto
in attuazione di un patto occulto patrocinato da D'Alema,
e avallato da Prodi con la nomina a suo ministro della
poste e telecomunicazioni di Maccanico, l'uomo delle
"larghe imprese", menando per il naso il popolo di sinistra,
convinto dalla propaganda ufficiale dei suoi dirigenti
che il voto all'Ulivo servisse alla lotta intransigente
contro la destra berlusconiana, addirittura contro il
paericolo fascista da essa rappresentato. Qui non siamo
d'accordo con Travaglio: il popolo di sinistra non è
ingannato abilmente suo malgrado, ma si inganna volontariamente,
spengendosi ogni giorno l'intelligenza e la memoria
per mantenere un'appartenenza vuota di ideali e rispondente
più che altro a bisogni identitari, o narcisisti, o
di meschini interessi. Spiace anche come Travaglio ci
ricordi, del D'Alema subentrato alla fine del 1998 a
Prodi come capo del governo, soltanto il comitato di
affari creato da Claudio Velardi, che indusse Guido
Rossi a definire argutamente il Palazzo Chigi dalemiano
come "una merchant bank dove non si parla inglese".
Porcherie, certo. Come quella degli Angelucci, i re
delle cliniche romane, che ripianano tutti i debiti
del PDS e che, in cambio, sono messi da D'Alema in condizione
di impadronirsi del mega-ospedale San Raffaele. O come
quella di Vincenzo De Bustis, potente dirigente bancario
della Montepaschi amicissimo di D'Alema, d'intesa con
il quale cerca di incorporare nella Montepaschi la Banca
del Salento. Lo scopo è quello di dare alla già consistente
Montepaschi liquidità sufficiente per scalare la Banca
nazionale del lavoro, creando un potentissimo polo bancario
dalemiano. L'operazione fallisce perché De Bustis è
travolto dalle inchieste giudiziarie sui prodotti finanziari
ad alto rischio spacciati per sicuri ai clienti della
Banca del Salento, e portatori invece di rovina per
centinaia di faimglie. Un altro polo dalemiano avrebbe
dovuto essere la Telecom privatizzata e passata nelle
mani di Colaninno e Gnutti, fortemente incoraggiati
da D'Alema, ma anche questa operazione fallisce, perché
alla fine della Telecom si impadronisce la "Olimpia"
di Tronchetti Provera. Affari, affari e ancora affari,
spesso sporchi come quelli fatti sugli aiuti in Albania,
nei quali sono coinvolti diversi collaboratori di D'Alema,
allora indagati dal giudice Michele Emiliano, oggi sindaco
di Bari per il centrosinistra. Ancora Guido Rossi disse
che nell'entourage dalemiano "entrarono persone con
le pezze al culo che ne uscirono poi miliardarie". Cose
che Travaglio ha fatto bene a ricordare. Ma sarebbe
occorso accennare, benché non si tratti del campo di
studio di Travaglio, come D'Alema si sia aperto la strada
alla guida del governo quale uomo degli americani per
coinvolgere l'Italia nella guerra contro la Serbia,
e come anche per questo preciso motivo abbia ottenuto
il determinante appoggio parlamentare dei transfughi
della destra guidati da Cossiga (chi ricorda più che
facevano parte della maggioranza di D'Alema e Scognamiglio,
suo ministro della difesa, Buttiglione e Cirami, sì,
proprio quel Cirami che poi, tornato a destra, darà
il nome alla famosa legge berlusconiana?), come, sempre
quale uomo degli americani, si sia fatto eversore della
Costituzione nei suoi articoli 11 e 78, abbia spudoratamente
mentito sul ruolo degli aerei italiani in Serbia, abbia
abbandonato Ocalan ai torturatori turchi. Sono queste
le vicende che hanno definito per il futuro il profilo
politico di D'Alema.
Messo da parte Prodi,
bruciato D'Alema dalla sconfitta alle elezioni regionali
della primavera del 2000, lo sfidante di Berlusconi
alle elezioni politiche del 13 maggio 2001 è Rutelli,
altro personaggio ben lumeggiato da Travaglio. Francesco
Rutelli si è fatto inizialmente strada in politica sulla
base praticamente di un solo merito, quello di aver
saputo suscitare la predilezione nei suoi confronti
di Marco Pannella, che negli anni Ottanta lo ha portato
prima, a soli ventisei anni, ad essere eletto segretario
del suo partito radicale, poi, quando ha inviato una
sua pattiglia a contribuire alla nascita dei cosiddetti
Verdi Arcobaleno, ad avere un ruolo di spicco nella
nuova formazione. Seguendo la linea di Pannella di quegli
anni, Rutelli è stato un antimilitarista integrale,
un pacifista e un duro anticlericale. Successivamente,
però, nel periodo in cui si è ricomposta la divisione
dei Verdi, i Verdi riuniti si sono integrati nella coalizione
di centrosinistra, e la coalizione di centrosinistra
lo ha candidato sindaco di Roma, egli si è gradualmente
smarcato dalla linea pannelliana, abbandonata del resto
dallo stesso Pannella, spostatosi a destra. A partire
da quando, alla fine del 1993, è stato eletto sindaco
di Roma, ed ha avuto l'opportunità di allargare le sue
basi di potere con l'appoggio della curia e della finanza
vaticane, Rutelli, ci ricorda Travaglio, ha dimenticato
completamente il suo anticlericalismo del giorno prima,
si è scoperto religioso, arrivando fino, nel 1995, a
risposare Barbara Palombelli, civilmente già sua moglie,
con rito cattolico concordatario: lui, aspro contestatore,
dieci anni prima, del rinnovo del Concordato! Nel 2001
lascia la carica di sindaco di Roma, alla quale era
stato rieletto, a Walter Veltroni, per assumere la guida
del nuovo partito della Margherita (nato dalla fusione
dei popolari con i diniani ed i prodiani), e dell'intera
coalizione di centrosinistra, alle elezioni del 13 maggio.
Naturalmente, dopo cinque anni di grigissima gestione
del potere da parte del centrosinistra, che ha reso
attraente nel popolo ignorante l'illusionismo berlusconiano,
la destra esce vincitrice dalle elezioni ed il bel Francesco
deve contentarsi del ruolo di capo dell'opposizione.
Per farne un piedistallo di visibilità e di influenza
politiche, lo svolge all'inizio con conclamato rigore,
mettendosi in mostra soprattutto come pubblico accusatore
delle conculcate libertà radiotelevisive: attacca violentemente
il direttore generale della Rai-TV Agostino Saccà per
la cacciata dagli schermi, in esecuzione della volontà
manifestata da Berlusconi da Sofia, dove è in visita
ufficiale, di Biagi, Santoro e Luttazzi (Travaglio ci
ricorda, peraltro, come Saccà, amico e protetto di Velardi,
consigliere di D'Alema, sia stato imposto come direttore
del primo canale televisivo dallo stesso D'Alema quando
era capo del governo); successivamente invia un messaggio
alle migliaia di manifestanti accorsi all'auditorium
di Roma per protestare contro la soppressione del programma
di Sabina Guzzanti; successivamente ancora arringa con
parole di fuoco la folla raccoltasi davanti al Senato
contro la legge Gasparri allora in discussione, e moltiplica
le sue denunce del carattere liberticida della gestione
berlusconiana della Rai-TV. Da un certo momento in poi,
però, nota Travaglio, l'archivio dell'Ansa non riporta
più alcuna denuncia di Rutelli contro la Rai-TV berlusconiana,
e Berlusconi comincia addirittura a dichiarare ripetutamente
di desiderare al vertice dell'azienda radiotelevisiva
Barbara Palombelli, la quale, mesi prima, ha tenuto
su Sette (la rivista poi ribattezzata Magazine) una
rubrica rievocativa del "1993, l'anno del Grande Terrore",
dove per "Grande Terrore" ha inteso l'azione giudiziaria
contro il gran giro delle tangenti, azione da lei definita
"colpo di Stato di una magistratura politicizzata",
attraverso una "persecuzione assassina" di politici
rei, come Craxi, di "peccati veniali" (sic!). Che cosa
è mai successo al bel Francesco?
Travaglio racconta
come il più intraprendente ed ubiquo tra i paparazzi
romani, Umberto Pizzi, abbia fotograficamente carpito
un incontro conviviale tra il ministro Gasparri e Rutelli
a Palazzo Venezia a Roma, durante il Gran Galà Telethon
del 2004, proprio nel periodo in cui si lanciavano pubblicamente
feroci accuse reciproche. Nella fotografia di Pizzi,
invece, Rutelli e Gasparri siedono sorridenti attorno
allo stesso tavolo davanti ad un filetto di manzo al
rosmarino e ad un piatto di funghi porcini. L'incontro
è a quattro, perché accanto a Gasparri siede giuliva
e loquace la Palombelli, moglie di Rutelli, ed accanto
a questi siede, con un'espressione più seria, il nuovo
direttore generale della Rai-TV succeduto a Saccà, ovvero
Flavio Cattaneo. Subito dopo quell'incontro Cattaneo,
uomo di Berlusconi, ha sottoscritto con la Palombelli,
donna di Rutelli, un contratto d'oro (per la Palombelli,
non certo per la Rai-TV): le e' stato chiesto di essere
regista e ospite fissa di un nuovo programma di confronto
politico, Punto e a capo, condotto da Masotti e Vergara,
di fare alcune comparse in Porta a Porta di Vespa, e
di curare un programma radiofonico quotidiano, il tutto
compensato con la bella sommetta di 300000 euro, oltre
che con il sottinteso vantaggio politico che ne avrebbe
ricavato il marito. Questi, subito dopo l'allegro e
pingue convito, cessa di battersi contro la censura
televisiva.
Ma la responsabilità
di aver cacciato tanti personaggi scomodi dal video
è soltanto di Berlusconi e dei berluscones? Travaglio
chiarisce, per chi non lo sapesse, che un forte potere
è nelle mani del presidente della commissione parlamentare
di vigilanza sulla Rai-TV, e che per regolamento quella
presidenza non può andare ad un appartenente alla maggioranza
governativa, ma spetta all'opposizione. Nel quinquennio
1996-2001, in cui ha governato il centrosinistra, infatti,
presidente della commissione parlamentare di vigilanza
sulla Rai-TV è stato Francesco Storace, designato da
Alleanza nazionale, che ha svolto con grintosa efficacia
il suo compito, condizionando in modo non irrilevante
la gestione televisiva della sinistra. Nel 2001, quindi,
con la destra al governo, quella presidenza spetta alla
sinistra, e, poiché la Margherita ha già il capo dell'opposizione,
spetta specificamente al PDS, di cui è allora segretario
il torinese Piero Fassino, terzo personaggio, dopo D'Alema
e Rutelli, di cui ora riferiamo gli "inciuci" raccontati
da Travaglio.
Nel 2001, all'inizio
della nuova legislatura, Fassino è segretario del PDS
da appena pochi mesi. Poiché infatti Rutelli aveva lasciato
a Veltroni il comune di Roma per diventare capo del
centrosinistra, e poiché Veltroni, per diventare sindaco
di Roma, aveva dovuto lasciare la segreteria del PDS
(in cui era subentrato a D'Alema quando questi, nel
1998, era divenuto capo del governo), la segreteria
era rimasta vacante, ed era così andata a Fassino. Benché
fresco di nomina, il nuovo segretario si impone subito,
appunto, sulla questione della presidenza della commissione
di vigilanza della Rai-TV. Il candidato naturale a tale
carica è il diessino Antonello Falomi, che nella precedente
legislatura ha guidato la delegazione diessina nella
commissione, contrapponendosi con vigore all'allora
presidente Storace. Fassino però non lo vuole, e pretende
che al suo posto vada Claudio Petruccioli. Benché militante
continuativo nel partito fin dall'adolescenza, prima
nel PCI, poi nel PDS, infine nei DS, Petruccioli vanta
un ampio spettro di entrature e legami trasversali:
ha, tramite la moglie, una parentele acquisita con gli
Agnelli, ha rapporti con il banchiere Luigi Arcuti che
gli consentono di contare nell'IMI e nella Banca San
Paolo, è legato ad Enrico Mentana, Giuliano Ferrara,
Adriano Sofri. Tra i suoi amici più stretti ci sono
eminenti personalità di Mediaset, come Gina Nieri e
Fedele Confalonieri, con cui si ritrova a cenare insieme
diverse volte ogni anno.
La delegazione diessina
della commissione, chiamata a scegliere il presidente
tra i due candidati, vota però a maggioranza schiacciante
Falomi contro Petruccioli. In una democrazia seria,
o in un paese normale, auspicato da D'Alema nel libro
dall'omonimo titolo pubblicato nel 1995 per la Mondadori
di Berlusconi, la partita si sarebbe chiusa con Falomi
presidente. Le vicende successivamente accadute, che
Travaglio ci racconta, hanno invece dell'incredibile.
Fassino pretende che la votazione sia ripetuta, ma da
un diverso collegio elettorale. Per scongiurare, evidentemente,
una nuova vittoria di Falomi. Voteranno, dice Fassino,
soltanto i commissari diessini senatori, e non anche
i deputati. Nessuno si ribella all'assurdo di far eleggere
il presidente di una commissione bicamerale da un collegio
unicamerale. Ma, si sa, il diessino obbedisce all'autorità
partitica costituita "perinde ac cadaver", mettendo
cervello e cuore in naftalina, secondo l'antica tradizione
comunista (la tragedia replicata come farsa, secondo
la nota espressione di Marx). Petruccioli, tuttavia,
è un uomo che, come sa chiunque vi abbia avuto contatti
(a parte tipi come Ferrara, Sofri e Berluscones vari),
ispira antipatia. Il nuovo collegio costituito da Fassino,
perciò, vota ancora per Falomi. Fassino, e siamo ormai
alla farsa democratica, fa ripetere per la terza volta
la votazione, con una nuova modifica degli elettori,
con lo scorno di vedere per la terza volta Falomi. Chiama
allora a votare tutti i senatori diessini, anche quelli
non membri della commissione di cui si deve scegliere
il presidente, escludendo però i deputati, compresi
quelli membri della commissione, e facendo fare pressioni
da Angius su questo nuovo collegio. Vince così finalmente
Petruccioli, sia pure con un solo voto di scarto.
Quale profilo di Piero
Fassino emerge da questa vicenda? In generale, quello
di un dirigente certamente più interessato alle entrature
in qualche ambiente imprenditorialaffaristico torinese,
che Petruccioli gli garantisce, piuttosto che all'etica
democratica. Ma, nella situazione specifica, quello
di chi, dovendo guidare il partito dall'opposizione,
punta tutte le sue carte sulla buona disposizione della
maggioranza, chiamata a ricambiare i favori ricevuti,
quando era opposizione, dall'opposizione che era allora
maggioranza. Solo nei confronti degli elettori si fa
la recita, in cui peraltro la pubblica opinione si lascia
facilmente coinvolgere, dello scontro all'ultimo sangue
della sinistra con la destra.
Petruccioli è davvero
l'uomo adatto alla bisogna, come rivelano le sue dichiarazioni,
documentate da Travaglio, di stima per Martelli, di
rimpianto (sì, proprio rimpianto) per Craxi, di ostilità
per la magistratura che pretende di perseguire i reati
dei politici. Travaglio documenta anche l'impressionante,
pur se coperta, cooperazione da lui prestata alla gestione
televisiva del governo Berlusconi. Sono episodi che
non conviene riassumere, ma devono essere seguiti sul
libro nel loro sviluppo.
Mentre Petruccioli
presiede la commissione di vigilanza, deve essere rinnovato
il consiglio di amministrazione della Rai-TV, composto,
secondo la legge, da cinque membri "di notoria indipendenza
di comportamenti", la cui scelta, alla quale governo
e partiti debbono rimanere estranei, spetta unicamente
ai presidenti delle Camere. Costoro devono anche scegliere
come presidente del consiglio di amministrazione della
Rai-TV uno dei cinque membri che lo compongono; si conviene
che tale presidente spetti all'opposizione, come garanzia
rispetto ad una maggioranza di consiglieri scelti, si
conviene pure, anche se la legge non lo dice, in omogeneità
alla maggioranza esistente in parlamento.
Ancora una volta interviene
Fassino per fare, con il livello di rispetto per la
legalità già dimostrato, una scelta da cui la legge
esplicitamente lo esclude. È lui, infatti, che nel marzo
2003 indica al presidente della Camera Casini il nome
di Lucia Annunziata come "presidente di garanzia" del
consiglio di amministrazione della Rai-TV, ed è lui
che comunica telefonicamente la nomina della stessa
Annunziata. Casini la nomina non l'ha ancora ufficialmente
fatta, ma Fassino è ufficiosamente certo che la farà,
perché Casini, con il suo rispetto della legalità, pari
a quello di Fassino, vuole evitare una scelta contraria
ai desideri di Berlusconi, e sa che il segretario dei
DS vuole la stessa cosa. La "notoria indipendenza di
comportamenti" prescritta dalla legge non consiste in
altro, per l'Annunziata, che nella disinvoltura con
cui è pronta a svolgere qualsiasi ruolo soddisfi la
sua ambizione senza principi. Lo rivela la sua carriera
di giornalista, da Il Manifesto a Il Riformista passando
per Il Foglio. Lo rivela poi, per quattordici mesi,
nella sua ridicola veste di "presidente di garanzia"
che voterà con i consiglieri della destra sia per cacciare
la Guzzanti dagli schermi televisivi, sia per mettere
sotto ispezione il Tg3 reo di aver mostrato immagini
della contestazione di Berlusconi al tribunale di Milano.
Ci si potrebbe chiedere,
a questo punto, che utilità abbia seguire queste vicende
e questi personaggi, e le tante altre vicende e i tanti
altri personaggi di cui si parla nel libro. Non si tratta
forse di miserie personali in un mondo di politicanti
e conduttori mediatici, un mondo rarefatto e parassitario
che non serve a capire il mondo reale delle produzioni,
delle tecnologie, delle inclusioni ed esclusioni sociali,
delle guerre dell'economia?
Il fatto è che dalla
descrizione e ricostruzione di questo mondo fatte con
il talento di Travaglio emerge un modello antropologico
di ceto politico in cui si condensano condizionamenti
multipli di molteplici livelli dell'economia e della
società. Di questo modello antropologico vanno comprese,
al di là del discorso di Travaglio, le radici strutturali
inscritte in una determinata fase storica. Per questa
via si può arrivare a capire come un certo genere di
economia abbia dissolto la politica, e come quindi non
esistano più non soltanto conflitti tra progetti politici
divergenti, ma neppure progetti politici come tali.
E, comunque, una conoscenza
dell'attuale antropologia del ceto politico è utile
anche in se stessa, perché immunizza dalla distorsione
mentale di "tifare" per la destra o per la sinistra.
Quel che gli "inciuci" ricostruiti da Travaglio rivelano,
si badi bene, non è che destra e sinistra sono eguali
tra loro e che non confliggono, ma che i loro conflitti
sono di pura occupazione di poteri disegnati da un'evoluzione
sociale (meglio sarebbe dire involuzione e disgregazione)
dettata dalla sola economia del profitto, senza alcun
diverso progetto di società. Senza volerlo, Travaglio
permette di capire che è male votare sia per questa
destra che per questa sinistra, la cui alternanza al
potere crea l'illusione di un qualche miglioramento
sociale ora da parte dell'una, ora da parte dell'altra.
Ma non è bene neppure astenersi dal voto, perché il
peso politico dell'astensione è zero. La cosa meno peggiore
da fare è dare il voto a qualche eccentrico e magari
cervellotico simbolo che troviamo sulla scheda elettorale,
in modo da contribuire ad un abbassamento percentuale
sia della destra che della sinistra. Le cose più importanti
da fare, poi, stanno fuori dal campo del giuoco elettorale.
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