Prefazione
di Giorgio Bocca
Si intende per "inciucio"
la perenne tentazione italiana all'unanimismo, al far
mucchio, al camuffare l'adesione alla maggioranza come
una opposizione. Con il berlusconismo al potere questa
tentazione si è manifestata in modo irresistibile e
impudico: gli oppositori di Berlusconi, la sinistra,
hanno cercato di aiutarlo, di imitarlo, di giustificarlo.
L'"Unità" antiberlusconiana di Furio Colombo si è fatto
e si fa di tutto per smantellarla.
Il leader della Rifondazione comunista Bertinotti è
l'uomo politico ospitato più di ogni altro da Porta
a Porta, informazione di regime. La letteratura forcaiola
e antipartigiana di Giampaolo Pansa è la più recensita.
Ed è di gran voga il berlusconismo malgré nous delle
penne eleganti, a cui il Cavaliere piace da morire perché
sarà un cafone, sarà un antidemocratico, ma come si
batte, che tenacia, che volontà, ma sì, teniamocelo
per altri cinque o dieci anni. È dall'inizio dell'èra
Berlusconi che questa sinistra ipocrita fa campagna
contro chiunque si opponga al suo bipartisanismo, al
suo doppio gioco. Per anni Furio Colombo e la sua "Unità"
sono stati considerati da questa sinistra i nemici numero
uno, peggio degli eredi di Salò, peggio dei terroristi
neri. L'argomento decisivo e sintetico usato dal riformismo
cialtrone era: "Colombo fuori dai coglioni". Marco Travaglio
e Peter Gomez non sono solo dei nemici, ma una malattia,
fanno venire l'orticaria. La sinistra intransigente
è una sorta di setta diabolica, da isolare, da emarginare,
da confinare nel silenzio, da tener lontana dalle televisioni
e dalle comunicazioni.
Il teorema del berlusconismo può essere questo: una
società in transizione confusa e trasformistica si identifica
nell'uomo che più le somiglia, che meglio la rappresenta;
e ne fa un capo indiscutibile. Negli anni Venti quell'uomo
è Mussolini e siccome è un tribuno, un violento, un
istintivo, si può farne l'uomo del destino. E così nel
contemporaneo con Berlusconi, che ha ripreso e rilanciato
l'operazione politica perseguita anche da Craxi il cinghialone,
l'uomo forte che va al potere, non importa se corrotto.
L'Inciucio di Gomez e Travaglio indulge anche a polemiche
minori, come quelle su Giuliano Ferrara e la Armeni,
ma è una raccolta precisa e seria sul trasformismo italiano.
E anche una analisi seria degli errori e delle omissioni
della sinistra negli anni in cui fu al governo e in
cui non seppe fare le leggi antitrust e sul conflitto
di interessi, consentendo a Berlusconi di durare e di
riproporsi con protervia. L'accusa più forte che il
campo "riformista", cioè trasformista, muove a Marco
Travaglio non è politica, ma caratteriale: Travaglio
è antipatico, fa venire l'orticaria al povero Bertinotti,
e non solo a lui.
Il trasformismo è attento alle buone maniere, al bon
ton. Passa con grande stile dal laicismo all'obbedienza
al cardinal Ruini, dal marxismo al gesuitismo, da Darwin
ai creazionisti. E chi lo considera un male perenne
del Paese è un essere infetto da isolare, da mettere
a tacere. Ma che rispetto intellettuale e politico si
può avere per gente che, in buona sostanza, se ne infischia
della libertà di informazione e mira soprattutto e soltanto
a stare nella stanza dei comandi e dei buoni stipendi?
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Introduzione
Dicono gli annali della
politica che il primo a parlare di "inciucio" fu Massimo
D'Alema. "Una cosa - disse a "Repubblica" - mi inquieta:
l'inciucione, ma glielo racconto un'altra volta..."
Era il 28 ottobre 1995, dieci anni fa. Poi, invece di
raccontarlo, tentò di farlo. Con il governissimo Maccanico
e poi con la Bicamerale. O forse - come ha rivelato
nel 2002 in piena Camera Luciano Violante - l'aveva
già fatto nel '94 promettendo a Silvio Berlusconi di
non toccargli quanto ha di più caro: le televisioni.
Nel Dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro
(Paravia), alla voce "inciucio" si legge: "Nel linguaggio
giornalistico, accordo informale fra forze politiche
di ideologie contrapposte che mira alla spartizione
del potere".
Dieci anni dopo,
in questo libro, raccontiamo gli inciuci che hanno portato
alla spartizione della televisione pubblica da parte
dei partiti di destra e di sinistra, e all'occupazione
militare di quella privata da parte di un signore che,
per inciso, è anche capo del governo. Con tanti saluti
alla libertà d'informazione, alla libera concorrenza,
alla separazione dei poteri. Quante volte ci siamo domandati:
ma come ha potuto Silvio Berlusconi arrivare dove sappiamo?
Lui dice che si è fatto da solo, ma pecca di ingratitudine
verso i tanti che gli han dato una mano. Certo, la loggia
P2.
Certo, i suoi
misteriosi finanziatori degli anni Sessanta, Settanta
e Ottanta. Certo, Bettino Craxi e tutto il Caf. Ma tutto
questo è finito nel 1993. E poi? Negli ultimi dodici
anni, dopo la "discesa in campo", il Cavaliere ha governato
7 mesi la prima volta e 54 la seconda.
Cinque anni e poco più. In mezzo, per sei anni e poco
più, ha governato il centrosinistra. E proprio in quei
sei anni Silvio Berlusconi, dato politicamente per morto,
ha risolto brillantemente tutti i suoi problemi finanziari,
riservandosi di sistemare quelli giudiziari nel suo
secondo governo. Missione compiuta.
Secondo Bill Emmott, direttore di un settimanale non
proprio sovversivo come l'"Economist", "Berlusconi è
una creatura dell'opposizione". E, aggiungiamo noi,
viceversa. In questo libro, che è il seguito naturale
di Regime, raccontiamo che cosa è accaduto nell'ultimo
decennio: da quando quel cadavere politico fu rianimato
dai suoi sedicenti oppositori con respirazioni bocca
a bocca, promosso padre costituente, beneficiato prima
con provvidenziali "distrazioni" che gli consentirono
di quotare in Borsa i suoi debiti, poi con leggi su
misura (vedi alla voce Maccanico) e leggi insabbiate
(vedi alla voce conflitto d'interessi) che salvarono
il suo monopolio dichiarato incostituzionale dalla Consulta
fin dal '94. Lo facciamo mettendo in fila i fatti, con
qualche retroscena e documento inedito. Per esempio
i rapporti dei "Comitati corporate" del Biscione, cioè
delle riunioni del 1993 a Milano2 in cui Berlusconi
e i suoi boys pianificavano l'occupazione della
Rai per salvare la Fininvest. Per esempio i carteggi
segreti degli emissari in Italia delle major americane,
che informavano allibiti i big boss di Hollywood
di quanto stava accadendo con il duopolio che diventava
monopolio.
Raccontiamo come la rinata partitocrazia di destra e
di sinistra s'è mangiata la televisione "pubblica" (per
non parlare delle Authority) con un inciucione bipartisan
che ha la faccia di Claudio Petruccioli, il presidente
diessino della Rai scelto dal padrone di Mediaset. Raccontiamo
le nuove censure del regime che declina, sempre più
patetiche e disperate: le ultime (si spera) raffiche
dei gerarchi in fuga contro Enzo Biagi, Michele Santoro,
Massimo Fini, Oliviero Beha, Report di Milena
Gabanelli, Carlo Freccero, i ragazzi di XII Round,
Daniele Luttazzi, Corrado e Sabina Guzzanti, Beppe Grillo,
Paolo Rossi, Dario Fo, Paolo Hendel, Monica Guerritore,
Adriano Celentano e i tanti militi ignoti della fu informazione.
Raccontiamo le nuove gesta del Tg1-Pravda di
Clemente J. Mimun e degli altri Cinegiornali Luce anni
2000. Raccontiamo vita e miracoli degli Inciucio
Boys, gli eterni galleggianti che piacciono a tutti
perché servono a tutti, anzi servono tutti: i Vespa
di destra, i Vespa di sinistra, i Vespa contemporaneamente
di destra e di sinistra, buoni per tutte le stagioni.
E dunque, oltre al capostipite di Porta a Porta,
Enrico Mentana, Giovanni Floris, Barbara Palombelli,
Klaus Davi, Lucia Annunziata e il forzista dalemiano
Agostino Saccà con l'amico del cuore Claudio Velardi.
Raccontiamo i talk show ridotti a salotti di
chiacchiere fra politici e soubrettes, con il semiconduttore
di turno che dirige il traffico delle opinioni e garantisce
l'assenza di notizie e fatti.
Raccontiamo infine gli assalti a due giornali politicamente
lontani mille miglia, ma ancora faticosamente liberi:
la cacciata di Furio Colombo dall'"Unità", reclamata
a gran voce da Berlusconi e prontamente concessa dalla
Quercia; e la scalata al "Corriere della Sera" tentata
dai "furbetti del quartierino" ben appoggiati dalla
finanza berlusconiana, dalla finanza fazista e dalla
finanza rossa, e fortunatamente fallita grazie alla
Procura di Milano.
Ogni notizia, affermazione, citazione contenuta nel
libro è accompagnata da una nota che ne indica la fonte.
Sui fatti, dunque, chiediamo di essere giudicati ed
eventualmente smentiti. Non su categorie dello spirito
come "demonizzazione", "girotondismo", "riformismo",
"radicalismo", che francamente sfuggono a noi umili
cronisti.
Alla fine della lettura - è capitato a noi alla fine
della scrittura - viene una gran voglia di usare le
mani. Per fare qualcosa di buono, s'intende. Noi proponiamo
un paio di esercizi semplici semplici. Sottoscrivere
l'appello che Sabina Guzzanti e un gruppo di giornalisti,
artisti e intellettuali hanno lanciato per liberare
la televisione dal cancro dei partiti. E aderire al
progetto di legge di iniziativa popolare per un sistema
televisivo di respiro europeo che un gruppo di esperti,
riuniti intorno a Tana de Zulueta, ha approntato per
offrirlo ai leader del centrosinistra che si candidano
a governare dal 2006.
È un libro contro Berlusconi e l'Unione? Un libro qualunquista
che vuole dimostrare che, a destra come a sinistra,
"sono tutti uguali"? No, non lo è. È un libro che racconta
fatti (purtroppo) realmente accaduti. Con quali scopi?
Soprattutto due.
Primo: tentare di spiegare come mai nel 2004 e nel 2005
l'Italia è precipitata nella classifica di Freedom House
(letteralmente "Casa della libertà", ma americana) sulla
libertà d'informazione fra i paesi "parzialmente liberi":
prima al 74° e ora al 77° posto, fra la Bulgaria e la
Mongolia. E perché negli ultimi anni il nostro Paese
è stato ammonito, redarguito, condannato dall'Onu, dal
Parlamento europeo, dal Consiglio d'Europa, dall'Osce
e da Reporters sans frontierès.
Secondo: descrivere le nostre classi dirigenti di destra
e di sinistra per quel che sono e per quello che han
fatto. Sappiamo che la libertà d'informazione ha un
nemico pubblico numero uno: si chiama Silvio Berlusconi
e l'abbiamo vivisezionato in tanti, forse troppi libri.
Finché c'è lui in politica, sappiamo almeno per chi
non votare. Ma siamo certi che, caduto lui, l'Italia
riconquisterà come per incanto le libertà perdute? Sarebbe
disonesto raccontare simili fiabe della buonanotte.
Se Berlusconi è arrivato fin qui, è perché a sinistra
tanti, troppi gliel'hanno permesso. Non sappiamo perché
l'han fatto. Ma sappiamo che l'han fatto. Non sappiamo
se l'han fatto gratis oppure no. Ma, nell'un caso e
nell'altro, c'è poco da stare allegri.
Se chi ha fatto inciuci nella passata legislatura e
poi, nel 2001, ha perso le elezioni fosse andato a casa,
come avviene dappertutto fuorché in Italia, potremmo
permetterci il lusso di attendere con fiducia il ricambio,
l'alternanza. Non è così: quanti si candidano a governare
l'Italia dopo Berlusconi (ammesso che il dopo Berlusconi
non si chiami più Berlusconi) sono gli stessi che, messi
alla prova per sei anni e più, si sono ben guardati
dal liberare il mercato della televisione, cioè della
magna pars dell'informazione. Rivedendoli all'opera
retrospettivamente, appare chiaro che non si erano "sbagliati",
non si erano "distratti". Erano scelte consapevoli:
è la loro politica. Non è che non siano riusciti a risolvere
il conflitto d'interessi, a varare una legge antitrust
e a levare le zampe dalla tv per una congiunzione astrale
sfavorevole o per le avverse condizioni meteorologiche.
Non hanno voluto farlo. Perché trovano assolutamente
normale che sia la politica a comandare sulla Rai. Tramite
direttori- manutengoli a cui telefonare gli ordini di
scuderia, o a cui nemmeno telefonare perché gli ordini
li conoscono già. E tramite carrozzoni turbolottizzati
modello commissione di Vigilanza e Authority per le
Comunicazioni.
Se Bertinotti è il politico più invitato a Porta
a Porta, se nei salotti trash di Masotti
e La Rosa non manca mai una folta rappresentanza del
centrosinistra, se l'opposizione non è riuscita ad assentarsi
nemmeno per un giorno dagli strapuntini della Rai mentre
ne venivano cacciati i giornalisti e gli attori liberi,
se nei programmi fin qui abbozzati dall'Unione non c'è
una parola sulla libertà d'informazione (a parte quelle
solitarie di Romano Prodi), se le uniche proteste contro
la tv riguardano un mancato invito nel salotto di turno
o un sondaggio sgradito, un motivo c'è. E non è, purtroppo,
la distrazione. È l'allergia alla libertà, un'allergia
paurosamente contagiosa. Come il conflitto d'interessi
"epidemico" di cui parla Guido Rossi.
Ora gli stessi leader invecchiati di un lustro, messi
di fronte agli stessi problemi incancreniti da cinque
anni di regime mediatico, tenderanno naturalmente a
riprodurre gli stessi comportamenti. Cioè a non fare
la legge sul conflitto d'interessi, la legge antitrust,
la legge che libera la tv dal giogo dei partiti. Chi
pensa che, appena la sinistra vincerà le elezioni, automaticamente
i partiti usciranno da Viale Mazzini con le mani alzate,
si illude. Dovranno essere i cittadini a costringerli,
pretendendo impegni precisi prima delle elezioni.
E, dopo, evitare di sedersi sugli allori, ma
vigilare giorno per giorno per evitare che vada a finire
come l'altra volta.
Mentre si discetta sul pericolo di un "berlusconismo
senza Berlusconi", se ne trascura un altro: il berlusconismo
di parte del centrosinistra con Berlusconi, sia esso
all'opposizione (come nel 1995-2001) o al governo (come
dal 2001 a oggi). Perché il Cavaliere, anche se dovesse
perdere, non se ne andrà a Tahiti né alle Bermuda: resterà
come la volta scorsa in Parlamento o - potendo - al
Quirinale. Per condizionare la maggioranza (la riforma
elettorale serve a garantirgli quantomeno un'ampia minoranza)
e salvare un'altra volta la sua roba, seduto su un patrimonio
di almeno 10 milioni di euro e - se non cambierà nulla
- su tre reti Mediaset e una rete e mezza della Rai.
Così, a chiunque tentasse eventualmente di scalfire
il suo monopolio incostituzionale, tremerebbero ancora
le gambe. E sarebbe inevitabile un nuovo inciucio.
Tutti i dibattiti pelosi degli ultimi mesi su "quanto
conta la tv nella politica", che di solito si concludono
con la risposta "la tv nella politica non conta, infatti
Berlusconi ha perso le elezioni europee e regionali",
sono finalizzati a questo: a spianare la strada all'ennesimo
inciucio, assicurando una congrua "buonuscita" a chi
peraltro non ha alcuna intenzione di uscire. Nessuno
in possesso delle sue facoltà mentali può davvero pensare
che "le tv non contano": anzi, tutti sanno che contano
moltissimo.
Contano per dettare l'agenda unica ai cittadini, espellendo
gli argomenti scomodi dal teleschermo e dunque dalle
nostre teste. Servono per tenere artificialmente in
vita partiti e uomini politici che, senza "apparire"
in tv, sarebbero già spariti da un pezzo. Servono per
premiare i "buoni" e punire i "cattivi". Servono per
firmare contratti con gli italiani senza gli italiani,
e poi per farli dimenticare quando li si è platealmente
traditi. Servono - lo dicono gli esperti veri - a spostare
dal 3% (secondo Alessandro Amadori) al 6% (secondo Giovanni
Valentini e Renato Mannheimer) dei voti di quei milioni
di italiani che s'informano (si fa per dire) soltanto
azionando il telecomando, senza mai sfogliare un giornale,
leggere un libro, navigare su internet.
Se le tv non contassero il Cavaliere, che almeno di
tv s'intende, non le terrebbe tutte per sé, non farebbe
epurare tutti i personaggi più scomodi, non tenterebbe
di smantellare la par condicio. Lui sa bene che, senza
le tv, nel '93 non avrebbe nemmeno pensato di fondare
un partito e oggi nessuno parlerebbe più di lui. E non
avrebbe mai vinto le elezioni del '94 (quando, secondo
Luca Ricolfi, la tv influenzò il 10% degli elettori).
E nel '96 non avrebbe portato in Parlamento una minoranza
così nutrita e minacciosa da poter ricattare, politicamente,
l'esigua maggioranza di Prodi. Anche la famosa "Rai
dell'Ulivo" era per metà controllata da berlusconiani
(Rai1 a Saccà e Vespa, Tg2 a Mimun), oltre a tutta Mediaset,
anche se oggi molti smemorati raccontano che "nel 2001
Berlusconi vinse senza le televisioni".
Ma quella frase demente - "le tv non contano" - è il
ritornello preferito di chi, a destra e a sinistra,
spera di perpetuare il sistema anacronistico che consente
a pochi eletti (da se medesimi) di continuare a occupare
abusivamente la Rai, chiudendosi in una stanza e giocando
a Risiko con la nostra libertà.
Anche le recenti campagne di alcuni commentatori del
"Corriere" e delle maestrine dalla penna rosso-nera
come Lucia Annunziata contro il ritorno dei "demonizzatori",
dei "radicali", dei "Michael Moore italiani", dei giornalisti
e attori di denuncia che "spaventano le classi medie"
e "fanno perdere le elezioni alla sinistra" a questo
puntano: a livellare la siepe a colpi di cesoie, a segare
i rami sporgenti, cioè i pensieri forti e dunque diversi,
i personaggi autorevoli e dunque incontrollabili, siano
essi di destra, di centro o di sinistra, o magari di
nessuna parrocchia. Una guerra preventiva a chi non
ha guinzaglio e non accetta bavaglio, perché i soliti
quattro gatti possano seguitare a gestire nelle solite
quattro stanzette ciò che è pubblico, cioè del pubblico.
Perché c'è ancora chi pensa, sovieticamente, che l'informazione
e la satira servano a far vincere (o perdere) le elezioni,
e non semplicemente a informare, con linguaggi diversi,
i cittadini.
Per impedire questo, è giusto raccontare e sapere tutto.
Scendere fino in fondo al baratro in cui ci hanno sprofondati.
Per sapere che bisognerà risalire molto, e con gran
fatica. Guai a pensare che l'Italia sia la stessa di
cinque anni fa e che quello attuale sia il livello-base
dal quale ripartire. Dieci anni fa chi accendeva la
televisione - pur lottizzata - poteva trovare in prima
serata Biagi e Montanelli, Santoro e Ferrara, Deaglio
e Minoli, Riotta e Funari, Feltri e Guzzanti (padre),
Zavoli e Augias, Vespa e Beha, Lerner e Annunziata,
oltre a quasi tutti i comici oggi desaparecidos. Ce
n'era per tutti i gusti. Oggi si dice che la punta più
avanzata sia il povero Floris, e il guaio è che forse
lo è davvero: il che la dice lunga su come siamo caduti
in basso.
Fermo restando che dev'esserci spazio per chiunque abbia
qualcosa da dire e qualcuno che lo stia ad ascoltare,
pensare di "ripartire da Ballarò" sarebbe triste e deprimente.
Significherebbe perdere la partita in partenza. Una
parte importante dell'opinione pubblica, molto più avanti
dei suoi presunti rappresentanti, l'ha capito da un
pezzo. Il boom di film come Viva Zapatero! e di programmi
come Rockpolitik, ma anche i 4 milioni e mezzo di votanti
alle primarie dell'Unione, per citare tre casi recentissimi,
indica una gran voglia di partecipazione, di democrazia,
di libertà. La censura è già stata sconfitta nella società.
Ora bisogna cancellarla dai palazzi del potere. Per
non morire berlusconiani, con o senza Berlusconi.
P.G. e M.T.
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